[Wang Hui, 2018] Oggi (27 aprile 2018) Gaia mi ha trasmesso una notizia assai poco lieta: la nostra cara amica Angela Pascucci (安吉拉·帕斯古齐) ieri ha preso congedo da questo mondo. Sapevo che non mancava molto alla fine; in questi ultimi giorni infatti pensavo di continuo ai nostri passati incontri e pur presagendo l’imminente perdita, potevo ancora percepire come un tempo il calore della nostra amicizia. Mi sono messo a frugare nella memoria del mio computer alla ricerca dell’introduzione che quasi dieci anni fa scrissi per la sua raccolta di interviste: adesso la voglio riproporre qui, in memoria di questa intellettuale internazionalista.
Angela era una giornalista del quotidiano della sinistra italiana “Il Manifesto”: molto attiva nei movimenti sociali, era una acuta osservatrice e una vera intellettuale. Io la conobbi nel 2004. Nell’autunno di quell’anno mi trovavo in visita all’Università di Bologna e lei venne appositamente da Roma per sentire una mia conferenza e così approfondire le sue conoscenze sulla Cina; da lì è nato uno scambio che è durato quattordici anni.
Dopo aver dato alle stampe “Talkin’ China”, lei riuscì a pubblicare una seconda raccolta, sempre riguardante la Cina.
Nel periodo in cui lavorò per “Il Manifesto” non solo realizzò in prima persona numerosi reportages, ma grazie all’aiuto di amici come Gaia, potè riassumere e presentare in Italia svariati dibattiti che avvenivano all’interno della Cina. Quando era a Pechino, inoltre, ebbe modo di partecipare alle discussioni fra me e i miei dottorandi, e parlò con loro.
Nel 2008, dopo l’incidente in Tibet del 14 marzo, sebbene io proprio in quel frangente mi trovassi a Bologna per più di un mese e fossi quindi parecchio lontano da casa, il dibattito sulla “questione tibetana” mi seguiva come la mia stessa ombra e quindi mi decisi a buttar giù un pezzo che prendesse in esame le ragioni di quella crisi. Giusto prima di rientrare, passai per Roma, dove Angela mi accolse per scortarmi in visita ad un museo, al quartiere ebraico e da ultimo al cimitero acattolico per vedere la tomba di Gramsci; durante tutto il nostro giro discutemmo senza posa dei territori occupati dalle minoranze etniche. In seguito lei mi disse che non mi aveva mai visto così perplesso ed addolorato e che avevo smarrito la mia usuale compostezza.
Quella del 2010 fu un’estate turbolenta: Angela si era appena sottoposta ad un primo intervento quando decise di venire apposta a Pechino per fare un po’ di inchiesta e per parlare con me: questa si chiama l’amicizia fra compagni. Nell’estate del 2016, saputo che si stava riprendendo da un’ennesima degenza, colsi l’occasione di una lezione che dovevo tenere a Bologna per scendere a Roma e andare a trovarla. Pur provata nel fisico dalla malattia, non ascoltò i miei consigli e cocciutamente mi accompagnò a visitare un museo. Del resto per molti anni, benché già malata, lei si ostinava a proseguire nel suo studio della lingua cinese.
Angela pur in quelle condizioni era come suo solito ottimista e calorosa, anche se io sapevo bene che non avrebbe più potuto affrontare dei viaggi lunghi e le occasioni di incontro non sarebbero state molte. Quella volta mi fermai in un albergo nei pressi di casa sua per circa una settimana, così quasi ogni giorno potevo chiacchierare con lei. Lei era la stessa di sempre: appassionata alle trasformazioni del mondo e della Cina, analizzava dal suo punto di vista sempre così acuto e singolare lo stato di crisi dell’intellettualità italiana e dei media, compresa la scissione di quel “Manifesto” per cui aveva lavorato per anni. Quella fu l’ultima volta in cui ci incontrammo, dopo la quale di tanto in tanto ricevevo sue notizie, talvolta belle talaltra meno, finché non non è calato fra noi un abissale silenzio. Infine nei giorni scorsi, poco prima della sua morte, mi è arrivato questo messaggio dal marito: Angela non può più parlare.
Angela se n’è andata. E già manca, a me e agli amici. Nel cuore sento un gran vuoto; frettolosamente butto giù queste note, a cui affido il mio dolore.
Wang Hui, 27 aprile 2018, venerdì, pomeriggio
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Prefazione di Wang Hui a "Talkin' China"di Angela Pascucci
[di Wang Hui] Da dieci anni a questa parte, gli sviluppi della situazione cinese sono divenuti materia di intensi, talvolta aspri dibattiti, sia a livello dell’opinione pubblica che fra gli intellettuali. Angela Pascucci raccoglie ora nel presente volume le interviste realizzate in Cina ad undici personaggi, estremamente diversi l’uno dall’altro per professione, status sociale e modo di pensare; ognuna di queste voci costituisce un tassello nel complesso mosaico della società contemporanea e illumina da una differente prospettiva i cambiamenti epocali, le profonde contraddizioni e i possibili destini futuri del paese. Nel panorama dei saggi e dei reportages sulla Cina scritti in Occidente, questa raccolta spicca per il suo carattere peculiare: attraverso un lavoro di inchiesta sul campo, infatti, la giornalista Angela Pascucci ha deciso di fondere insieme l’ascolto imparziale e l’analisi personale, presentando ai lettori occidentali la società cinese così come viene recepita dal suo interno. Cos’è, dunque, la Cina? Questa è la Cina: una miriade di differenze, di contraddizioni e conflitti – potremmo mai raccontarla restandone a debita distanza, prescindendo cioé dalla vita concreta dei suoi abitanti, dalle loro singolari passioni, azioni, idee e occupazioni?
Le interviste riportate in questo volume, benché limitate nel numero, riescono comunque a cogliere tutti i vari aspetti della realtà odierna. Passerò qui in rassegna le diverse personalità intervistate: Wen Tiejun, il maggior interprete della questione rurale (sannong wenti) e l’organizzatore del movimento per la ricostruzione delle campagne; l’attivista Yu Xiaogang, che nella regione dello Yunnan si occupa di protezione ambientale e dei diritti civili dei contadini; l’avvocato Mo Shaoping, testimone degli sviluppi della legge cinese e difensore dei diritti politici e umani, in base ai codici vigenti e alla Costituzione. Menzioniamo poi Cui Zhiyuan, il teorico della Nuova Sinistra, il quale è stato docente di Scienze Politiche al Massachussets Institute of Technology (MIT) e ora insegna all’Università di Qinghua; i fratelli Gao, Liao Bangming e Mi Qiu, esponenti della caleidoscopica scena artistica contemporanea; Yue Sai Kan, una donna poco nota in Occidente, ma che proprio grazie al suo background occidentale sfondò nel mondo dello spettacolo e nell’industria dei cosmetici già negli anni ’80; e ancora: l’architetto Zheng Shiling, che ha contribuito a ridisegnare lo skyline della città di Shanghai; il collettivo di “Utopia”, composto da molti giovani intellettuali di sinistra, spesso eterogenei fra loro per idee e posizioni; infine uno dei milioni di “mingong” che materialmente edificano la Cina. Ciò che questo libro intende offrire al lettore italiano è l’infinita varietà di racconti, situazioni, ottiche e aspettative verso il futuro che coesistono all’interno della nazione cinese: forse, più che le singole voci, sono proprio le discrepanze e le contraddizioni fra un racconto e l’altro che meglio illuminano lo spessore e la complessità di questo paese.
In passato, schiere di antropologi e cronisti ricercarono e studiarono le culture “esotiche”, mossi dall’interesse per gli “orizzonti interni” delle altre società. La Cina, che da un lato vanta un’imponente tradizione storica e dall’altro ha vissuto con massima intensità l’esperienza della rivoluzione moderna, ha sempre rappresentato una sovrana “alterità” rispetto all’Europa, sotto ogni punto di vista: culturale, politico ed economico. Questo testo offre invece tutt’altro approccio: si presentano qui alcune “voci interne” alla società cinese senza nulla concedere all’esotismo; attraverso il confronto con gli intellettuali, gli attivisti, così come con gli uomini d’affari, i lavoratori e gli artisti, l’autrice espone riflessioni, sfide e problematiche che sono intimamente connesse alla realtà sociale dei suoi lettori. Mentre seguiamo i ragionamenti di Wen Tiejun sul divario fra città e campagne, sulla questione rurale a tre dimensioni (sannong wenti) e sui suoi possibili esiti, percepiamo sì il peso di una crisi specificamente cinese, ma non trapela forse anche un altro piano del discorso, comune ad ogni società coinvolta nella globalizzazione? Quando il politologo Cui Zhiyuan si basa sulle teorie di Machiavelli, e non su Confucio o Mencio, per discutere delle possibilità di cambiamento politico, tu, lettore italiano, ti senti poi così distante dalle sue argomentazioni? L’approccio di cui si serve Angela Pascucci nelle sue interviste consiste quindi nel rigirare all’Italia, all’Europa od al mondo globalizzato le domande poste in Cina e alla Cina. Nel corso di tale dialogo, chi legge è portato a concludere che la Cina è sia l’oggetto d’indagine della giornalista, sia il metodo per poter ripensare le proprie questioni.
Nei paesi occidentali sono sempre convissuti due diversi filoni di ricerca: il primo è costituito dalla tradizione accademica e sinologica, il secondo invece ci rimanda all’altra tradizione, quella della inchiesta sul campo. Al principio degli anni ’50, dopo la fondazione della Repubblica Popolare, quando sia il conflitto sino-giapponese che la guerra civile erano ormai conclusi, si scatenò negli Stati Uniti una violenta disputa che incendiò i circoli politici e accademici: “perché l’America ha perso la Cina?” La disputa non riguardava solo il senso di scacco, diffusosi allora nelle alte sfere e negli ambienti ufficiali, per la mancata comprensione degli ultimi eventi; essa investiva chiunque avesse giudicato la Cina con troppa leggerezza, senza porsi le necessarie questioni metodologiche. Di nuovo, negli anni ’90, a seguito del crollo dei sistemi socialisti dell’Unione Sovietica e dell’Europa dell’Est, dopo quel 1989 che tanto ha pesato anche sulla Cina, un celebre sinologo americano, proprio poco prima di morire, pubblicò in un lungo saggio le sue ultime riflessioni. Il testo affrontava con piglio di feroce autocritica i vari insuccessi dei ricercatori occidentali; l’autore sosteneva infatti che non un solo esperto in scienze sociali era riuscito a prevedere i mutamenti drastici, il boom economico e la condizione di superpotenza della Cina post-1989. Perché la Cina non ha seguito il destino dell’Unione Sovietica? Come mai non ha calcato le orme dei paesi dell’Europa orientale, non ha affatto smantellato il comunismo, prendendo anzi tutt’altra rotta? E perché, in confronto alle nazioni che hanno abbracciato il modello neoliberista, o a quelle che l’hanno subito a mo’ di terapia d’urto, la Cina, proprio nella sua continuità col regime precedente, da un lato pare ancor più avanti grazie alle riforme di mercato, mentre dall’altro sembra immune alle ritorsioni sofferte dagli altri paesi? La pur immensa massa di dati raccolta dagli studiosi risulta spesso insufficiente a capire la portata delle trasformazioni in atto. Eccezion fatta per le opere di alcuni intellettuali particolarmente lucidi e lungimiranti, la maggior parte degli studi sull’argomento viene accantonata poco dopo la pubblicazione.
Ben diversa dalla tradizione accademica è la tradizione degli osservatori esterni, la quale si è formata grazie al lavoro di inchiesta e di esperienza diretta sul campo. Due sono i soggetti storici che hanno concorso a creare questo filone di ricerca: i missionari e i giornalisti. Sussistono infinite differenze d’approccio, naturlamente, tanto fra i giornalisti quanto fra gli uomini di chiesa; c’è chi ha espresso la propria stima e chi ha avanzato pesanti critiche nei confronti della Cina. I padri missionari, zelanti messaggeri della fede, approdarono in una realtà quanto mai estranea al loro credo religioso: dovettero quindi usare ogni mezzo per comunicare con la gente e furono loro a porre le basi delle conoscenze europee su questa zona del mondo. Nell’ambito di tale sapere, però, l’osservazione e la comprensione dei fenomeni si mescolarono agli a priori della religione. Poi, nel ventesimo secolo, i professionisti dell’informazione fecero irruzione sulla scena. Costoro, a differenza dei gesuiti, sono tenuti a trasmettere le notizie sia per obbligo deontologico, sia per una sorta di mandato sociale. La missione del giornalista è infatti duplice: deve assolvere il compito di riportare fedelmente l’oggettività dei fatti, ma d’altro canto non può fare a meno di interpretare i dati in suo possesso secondo i codici valoriali e gli schemi della cultura di provenienza.
Oggi, i media occidentali insistono soprattutto su due questioni: da un lato si leva il grido d’allarme per “la minaccia cinese”, dall’altro viene denunciata la mancanza di democrazia. In entrambi i casi la lettura della realtà non è priva di fondamento, anche se è altresì vero che le cose cambiano col mutare delle circostanze – comunque, non voglio entrare nel merito di questi due problemi ora. Ciò che mi preme rilevare, invece, è un altro aspetto della questione, ossia che in base a questi reportages la Cina viene trattata come un’entità monolitica, conchiusa, e di conseguenza da queste descrizioni di rado emergono i conflitti, le tensioni o i compromessi fra le diverse forze sociali in campo, o fra i diversi modi di pensiero. Ma ritornando alla storia del ventesimo secolo, vorrei ricordare gli scritti di alcuni giornalisti che sono riusciti a cogliere le dinamiche interne del paese: tali opere non solo miravano ad analizzare le differenti forze che si agitavano nel cuore della società (e in particolare, le forze in grado di cambiare i destini della nazione), ma intendevano ripensare anche alla propria realtà d’origine a partire dalla riflessione sulla Cina. Dall’epoca rivoluzionaria ad oggi, i libri di Edgar Snow (1905 – 1972), Agnes Smedley (1892 – 1950) e Anna Louise Strong (1885 – 1970) sono stati letti da generazioni di cinesi e furono “riscoperti” dai sinologi. Nella duplice esplorazione di sé e dell’altro, questi reportages non lavorano sulla differenza, bensì sulle connessioni profonde fra la Cina e l’Occidente. In ciò d’altronde consiste la tradizione del giornalismo internazionalista del secolo scorso, che, come ho detto, ha il grande merito di collocare i due mondi sul medesimo piano d’indagine. Quando questi giornalisti compresero che le guerre, la rivoluzione e gli esperimenti sociali della Cina avevano a che fare con la storia e il destino dei loro paesi, senza esitare presero parte attiva alla grande esperienza della modernità cinese – e le loro opere, quindi, sono il frutto del contatto ravvicinato, del dialogo e della partecipazione diretta. Perciò oggi ci è difficile stabilire se questi resoconti ci offrano una “visuale interna” o “esterna” alla Cina.
Ho incontrato parecchie volte Angela Pascucci negli ultimi anni, ora a Bologna, ora a Pechino o a Roma. Ogni volta lei aveva appena concluso un viaggio: arrivava dal Tibet, da Shanghai o dall’Italia desiderosa di comunicarmi le sue impressioni, i risultati delle sue ricerche e i suoi dubbi. Credo che sia una donna dotata di un fine spirito di osservazione e che sia anche in grado di entrare davvero e sinceramente in contatto con la Cina – o, per esser più precisi, di relazionarsi con la gente e la vita reale senza frapporre barriere. Pur in preda al dubbio o alle contraddizioni, Angela Pascucci non ha mai fretta di tirare le conclusioni e cerca invece di analizzare i problemi sotto ogni possibile angolazione; mantiene sì una distanza critica, ma non per questo si mostra distaccata, o indifferente. Per lei il dialogo, la discussione e l’inchiesta rappresentano la chiave di accesso alla Cina, e la Cina a sua volta diventa uno strumento per capire la società italiana o occidentale; perciò, grazie a questo approccio, si è conquistata la stima e la simpatia di tanti amici cinesi, che senza reticenze le hanno espresso le proprie opinioni e speranze.
Dunque, la “Cina” raccontata in questo libro non è affatto la somma di aridi dati statistici, bensì è un mondo vivo e pulsante che affiora dai flussi del pensiero e della vita.
Wang Hui, 31 ottobre 2007, New York
(Traduzione dal cinese di Gaia Perini)
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