[Angela Pascucci, 2013] Vi sono tempi e luoghi in cui la Storia fa irruzione nelle vite umane con una forza così dirompente che ogni singolo individuo si ritrova ad essere rappresentazione compiuta e protagonista a suo modo di quel processo, a prescindere dalla volontà, dal potere, dal ruolo sociale che gli appartengono. Ciò avviene soprattutto nel momento delle rivoluzioni e delle grandi trasformazioni che cambiano pelle a interi paesi. E’ quanto sta avvenendo in Cina, e le vite di cinesi che questo libro racconta lo testimoniano.
La grande trasformazione che le loro esistenze riflettono e testimoniano si sta dispiegando da oltre un trentennio, quello che più compiutamente ha catapultato la Repubblica popolare nel mondo, con un impeto tale che non solo è cambiato un paese delle dimensioni di un impero, ma il mondo medesimo non ha potuto più essere lo stesso.
In verità, il karma universale, o spirito della storia che dir si voglia, aveva già riservato alla Cina un ‘900 che, dall'inizio alla fine, non ha dato ai cinesi un attimo di tregua, quasi dovessero pagare lo scotto di quegli oltre 2000 anni di impero percepiti dall'esterno come immobile cosmogonia in eterna riproduzione di se stessa. E il dibattito è aperto su quanto le radici di quest’ultimo trentennio affondino dentro quel terreno travagliato dalla fine repentina dell’impero, da una guerra civile, da un conflitto atroce con l’invasore nemico e vicino, da una rivoluzione pressoché permanente. Un secolo di singolare “modernità”, in definitiva. Tale che non si può dire corretta l’immagine di un passaggio subitaneo dal Medioevo alla contemporaneità che taluni attribuiscono all'ultima Cina.
Ma non c’è dubbio che, arrivati senza fiato alla fine degli anni ’70, i cinesi siano stati di nuovo sospinti dal vortice accelerato di un’altra storia che non ha risparmiato neppure i recessi più periferici e isolati dell’antica Terra di Mezzo.
La forza centrifuga di quel vortice ha scomposto i connotati dell’intera società, scagliandoli con veemenza in un orbita di cambiamento incontrollabile che ha lasciato il popolo cinese frantumato, diviso e sconnesso, un enorme pugno di granelli di sabbia dentro una clessidra che gli eventi rigiravano a tutta velocità.
Lo scrittore Yu Hua, nel suo “La Cina in dieci parole”1 indica proprio nei fatti di piazza Tian’anmen un punto di svolta. Quell’evento epico e tragico costituì, scrive, “l’ultimo e definitivo sfogo di una passione politica che si era sedimentata durante la Rivoluzione culturale, dopodiché la passione per il denaro ha preso il suo posto”. Con la corsa all’arricchimento degli anni ’90, narra ancora Yu, “sono piovuti dal cielo termini nuovi di zecca: internauti che navigano in internet, azionisti che giocano in Borsa, detentori di fondi, fan di star, operai disoccupati, contadini migranti ecc. Parole che stanno spezzettando, smembrando, un vocabolo ormai sbiadito come ‘popolo’ “ il quale, scrive ancora, “nella realtà cinese sembra un termine vuoto (…) una società di comodo che per essere quotata in Borsa si riempie di contenuti differenti a seconda della fase”.
Un cantiere aperto che sfida la comprensione
Il dibattito è aperto anche sui connotati assunti oggi dalla Cina, la cui mutazione senza precedenti, per entità e velocità, continua ad affastellare contraddizioni paradossali: partito unico, sedicente comunista, e capitalismo selvaggio; onnipresenza dello stato e individualismo sregolato; sorveglianza capillare e censoria e una comunità ribollente di 570 milioni di internauti; crescita della ricchezza e ineguaglianze abissali di reddito, conflitti sociali, economici e ambientali fortissimi e tenuta del sistema stato-partito; disillusione, scontento, quando non disprezzo, verso i governanti e la corruzione che li pervade e identificazione forte con la potenza della nazione. La seconda economia mondiale, ormai prossima a diventare prima, è un ircocervo, un ibrido che sfida tutte le categorie di interpretazione e continua a smentire ogni previsione, prima fra tutte quella che il libero mercato avrebbe portato inevitabilmente alla democrazia in senso occidentale. E ci sarebbe da riflettere su quella previsione, ora che la democrazia occidentale annaspa sotto i colpi dell’economicismo fuori controllo e del profitto uber alles, che svuotano il senso della politica. In questo la Repubblica popolare non è una terra straniera e ancor più oggi appare come uno specchio che ingrandisce a dismisura un modello, anche nostro, portandolo ai suoi limiti estremi. Quindi la Cina ci riguarda profondamente, ma, non riuscendo a osservare lucidamente noi stessi, non riusciamo a decifrare neppure quello che in definitiva è il frutto più compiuto dell’attuale modernità.
Nel 2011 la rivista americana “Boundary 2”, pubblicata dalla Duke University, ha dedicato il suo numero di primavera a una riflessione critica sulla Cina degli ultimi trent’anni2 . Nell’introduzione uno dei curatori, Q.S.Tong, riguardo al problema posto dalla lettura del fenomeno cinese scrive: “Trent’anni dopo la riforma la Cina emerge come un luogo di paradossi, incoerenze e discontinuità, un esempio di quello che, in un differente contesto, Jurgen Habermas ha definito la ‘nuova oscurità’ del nostro tempo. Il linguaggio di cui disponiamo è sempre più inadeguato e inefficace per una descrizione analitica delle attuali condizioni della Cina, specialmente del modello sociopolitico di sviluppo”.
Chi oggi osserva la Cina e deve descriverla si trova dunque di fronte a un problema epistemologico non facile da risolvere per la singolarità del soggetto, non da oggi croce e delizia delle teorizzazioni occidentali. Un sociologo attento ai fenomeni cinesi come Jean Louis Rocca,3 nel premettere che “la Cina, più di qualsiasi altro paese, pone un problema ai suoi studiosi”, mette in guardia sulla rigidità delle due interpretazioni ancora oggi prevalenti. Una è definita dal sociologo “essenzialismo culturale” e approda alla constatazione di una irriducibile diversità per cui “i cinesi ‘non sono come noi’ ”. L’altra invece insiste “sull’universalismo dei percorsi storici e sociali” ai quali neppure la Cina può sfuggire. Leva potente e primaria lo sviluppo economico che “farebbe convergere progressivamente verso un modello comune – la modernità – caratterizzato dalla presenza di un mercato regolato, da una forma di democrazia elettiva e dal trionfo dell’individualismo” . In questo quadro “quello che si tratta di mettere in luce e analizzare sono i meccanismi di transizione che la condurranno in porto e i blocchi che potranno rendere il suo percorso difficile o caotico”. La conclusione di questa lettura è che “i cinesi sono come noi, semplicemente hanno bisogno di più tempo per realizzare l’essere universale”. L’oscillazione fra i due approcci, rileva il sociologo francese, non è nuova e si è dipanata nel corso della storia in forme diverse. E oggi si riproduce. Rocca smonta entrambe le ipotesi di lettura: non ci sono scorciatoie e ci si potrà avvicinare alla complessità del soggetto solo con uno studio costante, attento e rigoroso che egli focalizza sulla società e sulle sue dinamiche per far emergere il reale in tutta la sua varietà.
Un lavoro immane. Il cantiere Cina infatti è ancora tutto aperto, al pari dei cantieri reali che continuano a cambiare fisionomia alle città a ritmi incalzanti, costringendo i cinesi a una continua elaborazione di strategie di vita per cavalcare i cambiamenti ed evitare di essere sbalzati di sella. Osservarli è un lavoro affascinante per un giornalista che, non dovendo dare conto di metodologie e conclusioni scientifiche, può restare fedele al compito di descrivere ciò che accade, anche lasciandosi andare alla libertà di ascoltare i racconti che i cinesi fanno delle proprie vite. Come accade in questo libro. Sono vite di “resistenza” perché non si può semplicemente subire passivamente la trasformazione più veloce e radicale della storia umana, pena perdere se stessi e la speranza nella capacità di costruire il proprio futuro. Ed ecco allora chi la affronta, di petto o trasversalmente; chi si muove nelle sue pieghe e chi cerca di determinarne le correnti; chi si oppone e combatte e chi piega la testa ma cerca di andare avanti lo stesso.
Miti, realtà, narrazioni
Uno degli interrogativi che più spesso aleggia è se la leadership cinese riuscirà a fare fronte ai conflitti, ai problemi, a quelle che un tempo si sarebbero dette le contraddizioni, del modello di sviluppo scelto. Il mito della “transizione”, che finora pareva aver fatto da collante e legittimato anche le decisioni “lacrime e sangue” dei governanti, mostra la corda, e la modernizzazione che comunque avanza non soddisfa le aspettative crescenti di una parte sempre più vasta di cinesi. L’attuale assetto politico cinese esploderà? Qualcuno, incautamente, se lo augura, e lavora nell’ombra perché ciò avvenga. Ma finora le previsioni di crollo “alla Urss” sono state smentite. E la percezione di instabilità finora contraddetta fa parte integrante del puzzle cinese.
Nelle interviste contenute in questo libro non si prefigurano scenari di guerra o di crolli, né alcuno li auspica. Le voci raccolte espongono la difficoltà di vivere, l’insofferenza che avanza per gli aspetti più intollerabili dell’esistente, l’incertezza e l’ansia di non riuscire a dominare i fattori che mettono a rischio la sostenibilità della propria vita, lo sforzo intenso di capire cosa sta accadendo, la volontà di agire per determinare esiti positivi verso una maggiore giustizia sociale e un rispetto sostanziale dei diritti, nonostante la frustrazione indotta dai fallimenti. Sentimenti diversi ma espressi tutti nella consapevolezza che ci vorrà tempo, un impegno forte, e un cambiamento di rotta, perché la Cina diventi un paese meno spietato e gretto verso una parte dei suoi figli, e i suoi vertici più onesti negli enunciati retorici di uguaglianza e socialismo. Grave falso ideologico che maschera il sostanziale cinismo della (non) dialettica politica.
Esperienze, quelle descritte, che confermano quanto autorevoli osservatori affermano quando elencano le ragioni della tenuta sostanziale del Partito-Stato cinese: un’economia che corre ancora, nonostante la crisi; l’innegabile aumento della ricchezza, pur maldistribuita, che ancora alimenta il sogno di promozione sociale; l’abilità del governo di gestire uno dei sistemi di controllo e sorveglianza più imponenti del mondo, capace non solo di censurare media e web ma anche di manipolare e prevenire l’opposizione e la critica più pericolose; la capacità di cambiamento e resilienza di un Partito comunista che ha rivisto in profondità i propri assunti ideologici e modificato la propria composizione di classe senza perdere legittimità né cedere un palmo di terreno alla riforma politica in senso occidentale; la destrezza dell’apparato, di sicurezza e non, nel gestire l’intensificazione di proteste, scontri, scioperi, rivolte confinandoli all’ambito locale così da preservare dal discredito, in un gioco di sponde e alleanze degno di Machiavelli, il governo centrale e impedire coalizioni o intese più vaste e sovversive. Favorito in questo da una classe borghese medio-alta in costante, seppur lenta, espansione che ben lungi dall’essere una componente progressista è piuttosto conservatrice e legata allo status quo garantito dal regime. Salvo poi fuggire, letteralmente, dal paese, prendendo altrove la cittadinanza e portando con sé, non sempre in modo lecito, le proprie ricchezze.
Ultimo elemento, ma non meno importante: se il Pcc è ancora saldo al potere non è solo per una combinazione riuscita di forza brutale, crescita economica e appelli al nazionalismo ma anche grazie all’abilità nel raccontare su se stesso storie legittimanti che un gran numero di cinesi trova persuasive, come quella che la continuità del suo governo è meglio di incerte alternative. Ben lo rileva, e non da oggi, un osservatore attento come Jeffrey Wasserstrom 4. Dopo oltre vent’anni, il collasso dell’Urss resta sullo sfondo come un “memento mori” che, terrorizzando e condizionando ancora oggi la nomenclatura, spinge molti cinesi verso la convinzione che è meglio”il mondo conosciuto del Socialismo con Caratteristiche Cinesi piuttosto che avventurarsi sull’incerto terreno del caos post-comunista”. A questa narrazione se ne aggiunge un’altra: che lo stato-partito, grazie alla sua panoplia articolata di strumenti, non dispone solo di adeguate capacità tecniche di governo dell’economia, ma anche dell’abilità politica di preservare un ordine pacifico e stabile, oltre che di un prestigio internazionale che ha cancellato il secolo delle umiliazioni inflitte dall’Occidente e riconsegnato alla Cina il posto che da sempre le spetta nella storia del mondo.
Il cambio della guardia concordato
In questo quadro, il cambio istituzionalizzato e concordato dei vertici ogni dieci anni, resta uno degli strumenti di governo più sorprendenti e, fino a prova contraria, più efficaci per garantire continuità alla presa del Partito-Stato. Da quando le ultime interviste e reportage di questo libro sono stati raccolti, è passato poco più di un anno che ha visto cambiare le facce, in senso proprio, dei massimi vertici cinesi e di buona parte dei quadri di partito e di governo. Dal novembre del 2012 la Quinta Generazione di leader ha preso il posto della Quarta. Il capo dei capi Hu Jintao è stato sostituito alla segreteria del Pcc, alla testa della Commissione militare e alla presidenza dello stato da Xi Jinping, 59 anni. A marzo, in occasione dell’Assemblea nazionale del popolo, il premier Wen Jiabao cede ufficialmente il proprio scranno di premier a Li Keqiang, 57 anni. E’ cambiata la maggioranza dei componenti del Comitato permanente, il sancta sanctorum del potere, e del Politburo. Lo stesso Comitato centrale si è rinnovato per due terzi.
Fu Deng Xiaoping a volere il cambio concordato ai vertici, dopo che nel 1989 la vicenda di Tian’anmen aveva portato il Pcc sull’orlo di una spaccatura letale. Nelle intenzioni del Grande Vecchio, il meccanismo, imponendo la concertazione interna, avrebbe dovuto impedire conflitti per la successione che mettessero a rischio la coesione del Partito e dunque garantire maggiore stabilità istituzionale al sistema. Anche questa volta la transizione, la seconda da quando vigono le regole, è andata in porto senza intoppi; preceduta tuttavia da un anno al cardiopalma che ha messo a dura prova la tenuta interna del Pcc e rivelato linee di frattura ben celate.
La tempesta che da tempo si avvicinava aveva un solo nome, Bo Xilai, capo del Partito a Chongqing, municipalità a statuto speciale. Un personaggio chiacchierato e controverso che i media occidentali etichettavano in modo contraddittorio: da una parte, come un nostalgico maoista che cercava di ravvivare i fasti della rivoluzione culturale, dall’altra come un politico moderno di stampo occidentale che aveva gettato il guanto di sfida all’establishment del Partito, candidandosi apertamente all’entrata nel Comitato permanente, senza passare per i mercanteggiamenti interni ma ricorrendo alla vox populi. Il combinato disposto è parso una provocazione bella e buona agli occhi di una nomenclatura che ha in orrore il discorso politico, soprattutto quando viene posto sotto forma di sinistra. Peraltro una discussione assai accesa si era aperta nella variegata sinistra cinese, su quante credenziali potessero essere attribuite a Bo Xilai, la cui gestione effettiva del potere e le cui riforme, definite subito “modello Chongqing”, presentavano più di un’ambiguità.
Di sicuro anche a Pechino, nelle segrete stanze del potere, si discuteva della questione, e non certo con dissertazioni astratte. La saetta che ha incenerito Bo, privandolo d’un colpo di tutte le sue più alte cariche, si è abbattuta su di lui in modo imprevisto nel marzo 2012, alla fine dei lavori dell’Assemblea del popolo, ai quali l’astro nascente aveva partecipato rilasciando dichiarazioni baldanzose.
Accusato dapprima di voler riportare in auge lo spirito nefasto della Rivoluzione culturale, dunque un attacco tutto politico, Bo è stato in seguito fatto a pezzi, umanamente e politicamente, con una storia criminale: l’omicidio di un equivoco uomo d’affari inglese, Neil Heywood, architettato e portato a termine dalla moglie di Bo, Gu Kailai, con la complicità dell’ex capo della polizia Wang Lijun. Crimine che il capo del Pcc di Chongqing avrebbe in seguito cercato di coprire.
Una trama oscura e confusa, degna di tempi post moderni e post rivoluzionari, nella quale per la prima volta un ruolo di primo piano è stato assegnato al grande calderone del web, dal quale le indiscrezioni e le notizie partivano prima ancora che fossero diffuse dai media ufficiali, come se qualcuno molto interno volesse gettarle nell’arena mediatica per orientare l’opinione pubblica. La conclusione giudiziaria della vicenda è a tutt’oggi ancora incompiuta. Gu Kailai ha ammesso la sua colpevolezza ed è stata condannata alla pena di morte con sospensione per due anni mentre a Wang Lijun è stata comminata una pena di 15 anni per corruzione, defezione e abuso di potere. Di Bo Xilai si sono invece perse le tracce. Dopo la sua espulsione anche dal Partito, che lo ha consegnato alla giustizia ordinaria, si attende il suo processo. Fonti non ufficiali lo descrivono come un uomo fisicamente distrutto ma non ancora domato, che rifiuterebbe di collaborare alle indagini e avrebbe iniziato uno sciopero della fame che ha portato a un suo ricovero in ospedale.5 Se così fosse, Bo starebbe dimostrando un comportamento molto diverso da altri leader che prima di lui, incappati nei repulisti che il Partito di tanto in tanto avvia per liberarsi dei corrotti più scomodi, hanno accettato a testa bassa la purga.
Il Pcc è tuttavia uscito ancora una volta indenne dalla tempesta, segno della sua capacità di preservare intatta la nave e mantenere la rotta anche nei frangenti peggiori. A uscire con le ossa rotte è stata la sinistra, quella interna al Partito ma anche quella nel paese, che volente o nolente si è ritrovata legata al carro di Bo caduto nel precipizio. La partita può dunque dirsi chiusa, anche se il processo dell’ex capo del Pcc di Chongqing resta comunque scomodo, per una leadership di fresco insediamento che deve ancora consolidare il proprio potere. Il “principino” Xi Jinping non ha avuto scrupoli nel far fuori il “principino” Bo, segno che la potente fazione nella quale si raggruppano tutti i figli della potente aristocrazia rossa non costituisce più un gruppo di potere coeso e significativo, se mai lo è stato.
A ulteriore indicazione che anche le categorie tradizionali, “principini”, “appartenenti alla Lega della Gioventù”, “riformatori”, conservatori”, non riescono più a rappresentare le reali dinamiche interne al Pcc, i suoi concreti legami ed alleanze con i poteri forti, soprattutto economici, del paese, le sue future strategie di governo.
Il “sogno” dei nuovi leader
La nuova leadership ha fornito pochi indizi per chiarire di che pasta è fatta e quale futuro riserva al paese. Anche quei pochi sono parsi però significativi agli aruspici che scrutano le viscere dell’oscuro mondo politico cinese. Xi Jinping ha voluto da subito voluto smarcarsi dall’immagine del predecessore Hu Jintao. Se quest’ultimo era perennemente privo di espressione, imbalsamato in un doppio petto, simulacro di un’autorità atona e senza personalità, il successore ha dato la stura a un’esibita informalità esteriore e a un protagonismo personale spinto. L’immagine accattivante è stata accompagnata da una serie di editti che hanno eliminato ogni pompa ed eccesso dall’ufficialità e bandito tappeti rossi, limousine, fiori, brindisi, costose missioni all’estero. “Guerra al formalismo e alla burocrazia” ha dichiarato in un editoriale l’agenzia ufficiale Xinhua.
Ogni cambio della guardia, d’altra parte, ha finora straordinariamente intercettato l’aria dei tempi nel senso di cogliere i problemi più esasperati e i guasti peggiori prodotti dalla fase precedente per cercare di attutirne le conseguenze. Ma la Quarta Generazione, che pure ha continuato a produrre tassi di crescita da record anche durante la crisi economica globale, lascia un bilancio di fallimenti e promesse mancate, e un’eredità difficile da gestire: la disparità record dei redditi, che secondo alcuni dati supererebbe di gran lunga quella Usa e sarebbe pari a quella del Sudafrica; il degrado ambientale tragico, alla base dello straordinario aumento dei tumori, divenuti la prima causa di morte nel paese; la corruzione che pervade il sistema a tutti i livelli e ormai denunciata dagli stessi vertici come il pericolo principale per la sopravvivenza del Partito; lo sbilanciamento strutturale di un’economia il cui asse di sviluppo andrebbe radicalmente modificato; una bolla speculativa immobiliare che, se scoppiasse, porterebbe alla bancarotta numerosi governi locali.
L’uscita di scena di Hu Jintao e Wen Jiabao è stata del resto una delle più rapide e meno rimpiante. E i successori non ci hanno messo molto a occupare la scena.
Uno dei primi slogan, “il sogno cinese”, lanciato dallo stesso Xi Jinping, ha destato curiosità e sorpresa, anche per l’assonanza con l’immaginario americano. Una leadership meno distante, dal volto umano e tuttavia forte, forse anche nuovamente carismatica; questo sembra essere il nuovo brand da vendere ai cinesi perché mettano da parte le insofferenze e le diffidenze accumulate e si affidino alle politiche che i nuovi governanti preparano. Poco male se qualcuno che ha voluto prendere questo esordio sul serio è rimasto deluso. Come la rivista Southern Weekly che si è vista falcidiare un editoriale di Capodanno nel quale auspicava la realizzazione del “sogno costituzionale” dei cinesi.
Tra gli indizi seminati da Xi Jinping, anche il suo molto pubblicizzato “viaggio al sud”, reminiscenza e celebrazione esibita di un altro viaggio che ha fatto storia: quello compiuto nel 1992 da Deng Xiaoping che con il suo tour del Guangdong e delle zone economiche speciali merdionali volle rilanciare il corso delle riforme per gettarsi alle spalle il massacro di Tian’anmen. Ne è seguito un decennio brutale e travolgente, i cui effetti sono stati ben descritti da Yu Hua nel brano sopra citato. Le prime decisioni e proposte di riforma dei nuovi capi sembrano voler ripercorrere la strada, pragmatica, spregiudicata, de-ideologizzata, autoritaria, e per certi versi disumana, del primo architetto delle riforme.
Fu un punto di svolta e anche oggi è molto forte la percezione, anche al di fuori del paese, che si stia aprendo un importante, diverso capitolo nella storia della Repubblica popolare. Un’impressione che riconferma la destrezza dello stato-partito cinese nel creare quelle aspettative di cambiamento e di futuro migliore che tengono avvinti i cinesi, e i loro sogni.
Edoarda Masi, il cui rigore intellettuale ha costituito un modello per il modo di osservare la Cina di chi scrive, era molto critica nei confronti del presente cinese, nel quale vedeva all’opera, come ovunque nel mondo, “il medesimo processo di distruzione – delle nazioni, delle persone, delle cose e dell’intelligenza delle cose – senza che ancora appaia l’inizio di una nuova strada per liberarsi del mostro, che si presenta inafferrabile”. Tuttavia riconosceva l’estrema vitalità, foriera di speranze, di questo enorme paese e si chiedeva “non saprà dunque dirci più niente di diverso da quanto sappiamo già?”6
La domanda si pone ancora, con un’urgenza persino più grande, ma continua a restare senza risposta.
Note
1 Yu Hua, La Cina in dieci parole, Feltrinelli Serie Bianca, 2012.
2 China after 30 years of Reform: Critical Reflections, a cura di C.S. Tong e Jiwei Ci, in “Boundary 2”, ed. Online, 38, I, primavera 2011
3 Jean-Louis Rocca, La società cinese, Il Mulino Universale Paperbacks, 2011
4 Jeffrey N. Wasserstrom, Beijing’s New Legitimacy Crisis, in “Far Eastern Economic Review”, vol.168 n.1, dicembre 2004.
5 “China’s Bo Xilai not cooperating on probe, been on hunger strike: sources”, Agenzia Reuters, 21/2/2013
6 Edoarda Masi, Paradigmi in salsa cinese, “il Manifesto”, 2/9/2008
Articolo pubblicato il 23/06/2013 su www.inchiestaonline.it
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