[di Gaia Perini, 2018] Ancora una volta, il lavoro di Angela Pascucci torna utile per leggere l’oggi della Cina: il caso di Meng Hongwei, il primo cinese divenuto presidente dell’Interpol nonché uomo numero due della pubblica sicurezza in patria, ora agli arresti per “corruzione” e “mazzette” di cui nessuno sa granché, non può che richiamare alla memoria dei lettori della Pascucci i nomi di altri due “cadaveri eccellenti” dell’opacissima politica cinese contemporanea: Bo Xilai in primis, protagonista dello scandalo più importante avvenuto in Cina dopo l’ ’89, ma anche quel Chen Liangyu, segretario del PCC a Shanghai sino al 2006, su cui Angela basò la prima delle sue missioni giornalistiche in compagnia della sottoscritta.
La caduta di Chen Liangyu, come già ho scritto in occasione del lancio di questo sito, è strettamente legata alla figura di Xi Jinping, che infatti ne prese il posto. L’ascesa politica di Xi è poi ancor più palesemente connessa all’affaire Bo Xilai, visto che il suo governo e il “Chinese dream” prendono l’avvio giusto dopo il tramonto del “modello Chongqing”, almeno quale era stato progettato da Bo.
E’ forse d’uopo mettere subito le mani avanti chiarendo un punto fondamentale: nel richiamarci alla misteriosa vicenda di Bo Xilai e prima ancora a Chen Liangyu, per analizzare il ben più recente caso di Meng Hongwei, non intendiamo stabilire alcuna semplice analogia, né tantomeno facciamo di Angela una Cassandra o un’indovina, i cui scritti di cinque o dieci anni fa verrebbero letti come profezie sull’oggi. Ogni evento, ogni personaggio è a sé; tuttavia, se non vogliamo che la nostra visione della Cina resti schiacciata sull’attualità stretta, se davvero vogliamo – come diceva sempre lei – “cogliere la dinamica”, ossia il processo storico di medio termine, il paziente tentativo di “collegare i puntini” fra il presente e il passato recente, può rivelarsi utile, e diremmo fors’anche indispensabile.
Il primo testo che proponiamo qui risale al 2006 e partendo dalla “tangentopoli” che travolse Shanghai e il segretario Chen Liangyu, evidenzia alcune invarianti che ancora adesso ci interessano: innanzitutto, che la corruzione che sempre costituisce il capo d’accusa principale è solo un pretesto, mentre la posta in gioco reale resta invisibile, sommersa nel regno delle ipotesi più fantasiose e dei pettegolezzi che serpeggiano fra media e opinione pubblica. “Se il problema (delle tangenti) fosse davvero affrontato alla radice, dovrebbero mettere sotto inchiesta il 70-80% dei funzionari del Partito”, diceva ad Angela in un’intervista a caldo l’avvocato Mo Shaoping. Difatti, “in questa situazione di corruzione diffusa – riassumeva lei – gli arresti indicano un criterio di scelta preciso: l’attuale governo si vuole sbarazzare della generazione passata”.
Di particolare rilevanza è inoltre la connessione fra la vicenda del Segretario Chen e lo sviluppo urbanistico di Shanghai, l’Expo 2010 e, più in generale, il tema della crescita. E’ un’associazione che diverrà ancora più esplicita nei testi pubblicati sul manifesto sei anni dopo, nel 2012, riguardo alla fine tragica (e per certi versi fumettistica) che farà Bo Xilai.
Ne “Il rimosso politico oltre la cronaca nera” – e già il titolo è emblematico – si impiegavano due parole chiave, la politica e la rimozione (come rimozione della politica, od anche politica della rimozione), le quali riaffiorano, ci pare, pure nel caso più attuale dell’ex capo dell’Interpol. Qualche giorno fa, leggendo sul South China Morning Post di Meng Hongwei, reo in primo luogo di aver trasgredito le leggi perché “agiva di testa sua”, criticato per la sua “insistence on doing things his way”, mi è venuto immediatamente in mente questo passaggio scritto da Angela in riferimento a Bo Xilai:
“(...) l'affaire Bo si è rivelato una sorta di test, utile a far emergere due fondamentali punti di compromesso. Da una parte, che le regole interne per definire gli equilibri di potere non si sfidano, come invece aveva tentato di fare l'ingombrante ed eclatante Bo, che ambiva a entrare nel Comitato Permanente del Politburo. Dall'altra, che conviene ancora oggi convivere, concertare e non sbranarsi, anche se il comune denominatore si va riducendo sempre”.
In sostanza, l’allora segretario del PCC di Chongqing giocando da battitore libero aveva creato un modello (chiamato appunto “modello Chongqing”), che in buona parte trascendeva i diktat della dirigenza in materia di sviluppo e gestione del territorio. Con un tasso di crescita del 16%, contro il 7-8% imposto dal piano quinquennale, il governo della municipalità aveva dato prova di un’autonomia economica assai più intollerabile dei “canti rossi” o dei richiami al maoismo, per i quali fu poi ufficialmente screditato. Questo punto venne peraltro confermato dal professore di Tsinghua, politologo e consulente tecnico del “modello” Cui Zhiyuan, in un’intervista che lui rilasciò ad Angela nell’autunno del 2012: “L'ex capo del Pcc di Chongqing non si conformava alle regole vigenti per i dirigenti locali, che devono astenersi dal proporre o mettere in atto misure che attengono alla sfera del potere centrale (...).”
L’intervista fa parte della nostra selezione e la riproponiamo per intero, insieme ad un altro testo che ci sembra altrettanto fondamentale, non soltanto per comprendere il caso di Bo Xilai, il quale comunque passerà alla storia come “il primo scontro postmoderno e postrivoluzionario della Repubblica Popolare”, ma pure per decifrare il senso di cosa è divenuta la politica in Cina oggi. Firmato da Wang Hui e accompagnato da un’illuminante nota introduttiva di Angela, l’intervento, benché lungo, vale la lettura e l’attenta ponderazione, almeno per due motivi: da un lato l’analisi lucida e spietata che l’autore compie è tanto più preziosa oggi, in questo momento di assordante silenzio da parte del ceto intellettuale cinese, anche della sua parte critica. Oggi, difatti, non sappiamo se al professor Wang sarebbe mai concesso di scrivere e soprattutto di pubblicare delle osservazioni di questo tenore. Dall’altro, Wang Hui spinge lo sguardo ben oltre la contingenza, o per meglio dire, ricava la durata dalla contingenza: ieri, era l’assurda fuga di Wang Lijun, capo della polizia di Chongqing, al consolato USA a Chengdu, e poi gli intrighi e le mille piste da romanzo giallo intorno al misterioso omicidio dell’ancor più misterioso Neil Heywood; oggi, è l’inspiegabile arresto di Meng, l’ostinato silenzio delle autorità cinesi ad onta del ruolo istituzionale internazionale del personaggio, od ancora, le minacce alla moglie e l’ultimo laconico messaggio del marito, contenente l’emoticon di un coltello... No, scrive Wang Hui, l’opacità, la surrealtà e il brusio quasi incessante delle interpretazioni dei media, locali e stranieri, nonché dell’opinione pubblica, non fanno parte di una qualche forma di folklore cinese ma rientrano in un piano preciso, coincidono con una politica, che lui definisce “la politica delle stanze segrete”:
“l’ “incidente di Chongqing” assomiglia a un dramma teatrale ove la politica non può uscire dalle segrete stanze del potere. L’Assemblea sarebbe stata il luogo giusto per discutere pubblicamente di tutta la questione: se le dimissioni di Bo Xilai dipendono o no da un grave reato, commesso da lui in prima persona o dalla sua famiglia, se esistono diverse punti di vista sul modello Chongqing e se oltre all’esperimento sociale condotto alla luce del sole non sussistesse anche un livello segreto. E’ successo l’opposto. (...)
Il tratto distintivo della politica della segretezza è la manipolazione della “realtà”. Tale politica ha soppiantato la politica della trasparenza e di conseguenza le questioni di ordine politico sono divenute mere questioni di potere. Si è confinato nella stanza segreta il diretto interessato, poi si sono rilasciate o fabbricate le notizie, oculatamente selezionate, in base alle proprie esigenze politiche e si sono scelti i canali attraverso cui diramare le informazioni: il potere alla base di tutto ciò controlla ogni spazio residuo. (...)
Quando vige la politica delle stanze segrete, non esiste più la realtà, eccezion fatta per la realtà creata dalla politica suddetta.”
E’ assai probabile che la vicenda di Meng Hongwei nulla c’entri con quella di Bo Xilai, tuttavia sembrano ritornare pressoché immutati il segreto, la tenebra fitta che avvolge il personaggio, il mutismo dei vertici e il chiacchiericcio della stampa (“coloro che parlano, non sanno – se ci è concesso citare qui il vecchio Laozi – e coloro che sanno, non parlano”). Il 20 ottobre, intanto, la moglie di Meng dalla Francia ha dichiarato che il caso è politico ed è grave, perché chiunque lavori all’interno degli apparati di potere potrebbe finire sotto accusa al pari di suo marito, date l’arbritrarietà e l’opacità della giustizia cinese. La signora ribadisce che la corruzione è un pretesto. Comunque, pure lei pronuncia soltanto sentenze sibilline e mezze verità.
Secondo Wang Hui, la “politica delle stanze segrete”, lungi dall’essere legata all’ “incidente di Chongqing” nello specifico, è il frutto maturo di una crisi della rappresentanza che investe tutti e, in sintonia con quanto scriveva Angela sin dal 2006, va collegata ai periodici rilanci delle riforme (ossia all’ordine neoliberista). Ora, solo il tempo e i prossimi sviluppi ci diranno se il sacrificio del “capro espiatorio” Meng tornerà in qualche modo utile alle magnifiche sorti e progressive della Cina. La medesima “politica” ci sembra però all’opera e in questo senso la lettura diacronica e incrociata dei maggiori scandali avvenuti fra le alte sfere negli ultimi 10-15 anni può aiutarci a districarci fra le omissioni, le distorsioni, le voci di corridoio, i dettagli da romanzo, quando non da fumetto, in cui costantemente rischiamo di perderci brancolando nel buio di una realtà sempre più grottesca, artificiale, posticcia.
22 ottobre 2018
Comments