[di Wang Hui - Angela Pascucci, 2012]
Introduzione di Angela Pascucci
La caduta in disgrazia di Bo Xilai, ex segretario del Pcc di Chongqing, entrerà probabilmente nella storia cinese non solo come il più grande scandalo degli ultimi decenni ma anche come il primo scontro politico post moderno e post rivoluzionario della Repubblica popolare. Non vi sono precedenti al mix incredibile offerto dalle cronache degli ultimi mesi, a partire dall’esplosivo inizio, la fuga dell’ex capo della polizia di Chongqing, Wang Lijun, nel consolato Usa e la sua successiva riconsegna nelle mani delle autorità cinesi. Nell’affaire si intrecciano ora torbida cronaca nera (l’omicidio di un uomo d’affari inglese attribuito a Gu Kailai, moglie di Bo) e rese dei conti politiche, senza che si riesca a capire dove finisca l’una e cominci l’altra. Un’oscurità voluta dalle autorità cinesi e moltiplicata dai media, soprattutto dalla Rete, detonatore poderoso di una valanga di voci che per la prima volta hanno contribuito a ispessire il velo in cui si è voluto avvolgere il caso e la sua valenza politica. Il risultato più evidente è che la dinamica criminale ancora sfugge, ampliata e al tempo stesso sepolta da chiacchiere che non hanno conferma ufficiale, mentre la resa dei conti politica procede spedita. Bo Xilai è stato privato anche di tutte le cariche di Partito mentre l’esperimento politico da lui avviato a Chongqing aspetta un verdetto dall’alto che stabilisca cosa salvare e cosa distruggere. Bo è sparito anche dalla vista, come pure sua moglie e Wang Lijun. Una scena del crimine popolata di fantasmi e ombre degna di Lu Xun.
Wang Hui, l’intellettuale della sinistra critica cinese che i nostri lettori già conoscono, propone qui una lunga riflessione che ridà all’affaire Chongqing il senso che la leadership cinese vuole tenere chiuso nelle “stanze segrete” del suo potere. Un senso tutto politico che va in direzione di un’altra svolta in senso neoliberista delle riforme cinesi. A confermare la sua tesi è la stessa stampa finanziaria mondiale. Il 18 aprile scorso un’analisi dell’Intelligence Unit dell’Economist rilevava come le riforme economiche in Cina, soprattutto quelle nel settore finanziario, stessero procedendo a un passo sorprendentemente spedito in vista del cambio di leadership del prossimo autunno. Giovedì era il Financial Times a notare come i riformatori spingano ora per apportare cambiamenti alla Costituzione che sostengano nuove riforme. Entrambi gli articoli sottolineavano che il momento è più favorevole dopo la caduta di Bo che ha devitalizzato la sinistra.
Nell’epoca della crisi globale, la spinta al cambiamento radicale del sistema, nel mondo ma anche nella Cina dei record economici, è più forte che mai. Ma quel che ovunque accade è l’affermarsi delle vecchie ricette che hanno portato a questi esiti disastrosi. Le forze al potere, ovunque, neppure prendono in considerazione la possibilità di imboccare un’altra strada e restano sorde al confronto. In Cina le cose potrebbero andare anche più veloci e ormai senza più ostacoli, dando una spinta ancor più poderosa all’attuale trend mondiale. L’affaire di Bo parla anche di noi.
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"La vicenda di Chongqing: la politica delle “stanze segrete” e il rilancio del neoliberismo in Cina"
[di Wang Hui] La data del “14 marzo” originariamente indicava “i fatti di Lhasa” del 2008; oggi invece è sinonimo dell’ “affaire Chongqing” del 2012. Il “15 marzo” era il giorno dedicato al boicottaggio dei falsi; ora segna la fine del “modello Chongqing”. Non è frequente che gli esperimenti portati avanti da un governo locale influenzino l’intera nazione, suscitando addirittura un dibattito su scala mondiale, né accade così spesso che la rimozione di un dirigente locale scateni una tale bufera nella sfera politica. Alcuni osservatori ritengono che l’ “incidente di Chongqing” sia stato l’evento politico più importante dopo il 1989 e quest’opinione ha già riscosso numerosi assensi. Dalla vicenda di Wang Lijun in poi, le dicerie non si sono più arrestate, anzi sono proliferate a causa dell’intervento del Premier alla conferenza stampa di chiusura della Doppia Assemblea [1]: le storie si sono moltiplicate man mano che circolavano, creando una valanga da una palla di neve. Ne sono emerse due interpretazioni interscambiabili: la prima enfatizza il carattere politico della vicenda e riconduce quanto è successo a Wang Lijun ad un conflitto di linea; il suo acme coincide con l’analogia di Wen Jiabao fra l’esperimento di Chongqing e la Rivoluzione Culturale. La seconda interpretazione ricostruisce l’ “affaire Chongqing” a partire da una fuga di notizie più o meno volontaria: l’ “affaire” non sarebbe di natura politica, né riguarda un conflitto di linea, bensì si riduce a un semplice caso di violazione della legge da parte di una specifica leadership locale. Nella prima stesura del presente articolo, avevo già previsto che sarebbero riapparsi notizie, documenti e giudizi di questo tipo. Il 10 aprile sul twitter cinese, Weibo, si è diffusa una “diceria” che poi si è rivelata corretta, ossia che quella sera le autorità avrebbero fatto un annuncio importante. L’annuncio non è stato inserito nel consueto tg delle sette, ma nel notiziario notturno delle 11: si è così appreso che Bo Xilai è stato rimosso dal Comitato Centrale e dal Politburo del PCC e che la moglie di Bo, Gu Kailai, è stata consegnata alla legge perché si sospetta un suo coinvolgimento nell’omicidio dell’uomo d’affari inglese Neil Heywood. Riguardo a quest’ultimo, secondo l’opinione ufficiale era un semplice businessman, mentre dall’Inghilterra è giunta voce che invece lavorasse per i servizi. Se la vicenda implichi o meno la corruzione di un leader, se la “lotta alla criminalità” continuerà ad avere degli esiti così inaspettati e se l’omicidio non copra altri possibili misteri, a noi non è dato sapere. Dal momento che sui fatti vige una segretezza creata di mutuo accordo da Cina e Stati Uniti, nell’interazione fra i media stranieri e la rete cinese nascono e pullulano i “pettegolezzi”, che nessuno è in grado di giudicare. Tuttavia, una caratteristica di questa vicenda è che buona parte dei “pettegolezzi” sono poi risultati veri. Pure i sostenitori dell’esperimento di Chongqing difficilmente potrebbero giurare che non è accaduto alcunché di illegale o che la corruzione non c’entra; quanto all’omicidio di cui le autorità non hanno ancora rivelato i dettagli, nessuno può metterne in dubbio la veridicità, data la proclamazione politica fatta cinque mesi dopo l’evento. Nella Cina di oggi, del resto, illegalità e corruzione sono pervasive: colpire il proprio avversario politico accusandolo di essere un corrotto non è certo un’originale strategia segreta. Se pure Bo Xilai, noto per la “lotta contro il crimine”, si può macchiare di colpe così pesanti, la gente non potrà fare a meno di nutrire una profonda angoscia nei confronti della società cinese, soprattutto a causa della corruzione e della tenebra che dilagano nelle alte sfere. Ma il punto che vale la pena indagare non sta qui, sta nelle ripercussioni che la vicenda ha avuto sulla società, sta nella bufera politica e nei giochi fra le forze nazionali e internazionali, da cui sono scaturiti vari fenomeni complessi. Se paragoniamo tutto ciò alla caduta di Chen Xitong a Pechino e di Chen Liangyu a Shanghai, noteremo che il primo fu un caso politico, mentre il secondo fu un mero scontro di potere. Nessuno dei due casi implicò il coinvolgimento dell’Occidente. Forse, sia la strenua negazione, sia l’affermazione unilaterale della politicità degli eventi rappresentano due atti necessari di questo dramma della politica e l’uno non è affatto in contraddizione con l’altro. Tutto ciò è troppo teatrale – e anche troppo misterioso.
La logica della politica delle stanze segrete
L’esperimento di Chongqing si colloca all’interno delle strutture politiche già esistenti in Cina e del modello di sviluppo (atto ad attrarre gli investimenti stranieri ed export-oriented). Privo di una pianificazione aprioristica, l’esperimento si è tradotto di volta in volta nelle riforme economiche, politiche e sociali decise dagli organismi del governo, dal richiamo alla partecipazione popolare e dai dibattiti pubblici fra intellettuali. Tali riforme, nella pratica, hanno subito ripetuti aggiustamenti e sono tuttora in via di definizione. Il fatto stesso che sussistano diverse e contrastanti opinioni sulle riforme e sulla loro applicazione dimostra che queste ultime sono (il frutto di) una politica pubblica, di un esperimento democratico aperto alla partecipazione delle masse. Dall’inizio dell’era di riforma e apertura non si era forse mai vista una manovra di tale portata così trasparente. Questo è un dato di fatto che i problemi particolari di un singolo dirigente – quali che siano – non sono in grado di modificare. Al contrario, l’ “incidente di Chongqing” assomiglia a un dramma teatrale ove la politica non può uscire dalle segrete stanze del potere. L’Assemblea sarebbe stata il luogo giusto per discutere pubblicamente di tutta la questione: se le dimissioni di Bo Xilai dipendono o no da un grave reato, commesso da lui in prima persona o dalla sua famiglia, se esistono diverse punti di vista sul modello Chongqing e se oltre all’esperimento sociale condotto alla luce del sole non sussistesse anche un livello segreto. E’ successo l’opposto. Stando ai resoconti dei media, durante l’Assemblea, la mattina del 3 marzo, il membro del Comitato Permanente del Politburo e segretario della commissione centrale per l’ispezione disciplinare He Guoqiang si è recato in visita alla delegazione di Chongqing ed è stato accolto calorosamente da Bo Xilai e Huang Qifan. Il giorno 8, il membro del Comitato Permanente del Politburo e segretario della commissione politica e legislativa Zhou Yongkang ha partecipato alle deliberazioni dei delegati di Chongqing durante la quinta sessione dell’undicesima Assemblea Nazionale. Il 9, durante l’incontro aperto alla stampa, Bo Xilai e Huang Qifan hanno risposto per circa due ore alle domande dei giornalisti. Però poi il 14, nel pomeriggio, in occasione della conferenza stampa di chiusura dell’Assemblea, l’ultima domanda fatta dall’inviato della Reuters ci porta a pensare che l’incidente fosse già preordinato, o almeno questo spiega che le discussioni su Chongqing in quel momento erano parte di un gioco politico preparato a tavolino, il cui fine era quello di costruirsi una facciata perché l’Assemblea procedesse “in armonia”. Alle 9 del mattino del 15 il “Portale del Popolo” gestito dal Quotidiano del Popolo annuncia via microblog che “presto verrà data una notizia importante” (già era stata adottata questa stessa tattica per Wang Lijun); alle 10.03 appare su Weibo il comunicato dell’agenzia Xinhua riguardante le dimissioni di Bo Xilai. In seguito, i server di alcuni siti della sinistra vengono bloccati per cinque giorni di fila, mentre ai personaggi di sinistra più attivi su Weibo viene impedito di esprimersi. Un giornalista dell’edizione cinese del Financial Times ha commentato: “Tutto ciò che è successo nei due giorni successivi al 14 marzo, a partire dalle 13.45, si riassume nell’espressione ‘colpo di stato a palazzo’”. Il giorno 15 prima dell’alba, il capo del Dipartimento per l’Organizzazione del PCC Li Yuanchao, insieme al vicepremier Zhang Dejiang, è atterrato a Chongqing, ove ha dato l’annuncio dell’ “incidente” alla città e alla società tutta, col fare di chi sta gestendo una questione della massima urgenza. Quanto è seguito a Chongqing ha fatto sì che si percepisse nell’aria un’atmosfera da “13 settembre” [2]. Se anche si scoprisse che alle spalle dell’esperimento sociale condotto alla luce del sole i funzionari praticavano una “politica delle stanze segrete”, comunque il problema andrebbe risolto mediante la politica pubblica. Se le “stanze segrete” soffocassero la politica pubblica, entrerebbe in crisi la legittimità del sistema politico. Il tratto distintivo della politica della segretezza è la manipolazione della “realtà”. Tale politica ha soppiantato la politica della trasparenza e di conseguenza le questioni di ordine politico sono divenute mere questioni di potere. Si è confinato nella stanza segreta il diretto interessato, poi si sono rilasciate o fabbricate le notizie, oculatamente selezionate, in base alle proprie esigenze politiche e si sono scelti i canali attraverso cui diramare le informazioni: il potere alla base di tutto ciò controlla ogni spazio residuo. Dopo che era emerso il caso di Wang Lijun, non sarebbe stato difficile gettare un po’ di luce su questo che secondo la dicitura ufficiale è un “caso isolato” e chiarire gli eventi in sede pubblica. Qui però si manifesta la stranezza: le fonti statunitensi hanno scritto della vicenda in toni blandi, i media cinesi hanno mantenuto un assoluto riserbo, mentre i pettegolezzi hanno iniziato a spargersi dentro e fuori i confini del paese e ovunque sono comparsi i segni della teoria della cospirazione. Quando vige la politica delle stanze segrete, non esiste più la realtà, eccezion fatta per la realtà creata dalla politica suddetta. Il pettegolezzo (la diceria) offre uno spazio d’azione a questo tipo di politica: ne è il portato e al contempo la precede pubblicizzandola. Le dicerie che sono giunte ai nostri orecchi comprendono: gli episodi di corruzione nella famiglia di Bo Xilai, lo scontro di potere fra Bo e Wang Lijun, il colpo di stato ordito da Bo e Zhou Yongkang e il possibile nesso fra la misteriosa scomparsa del businessman inglese a Chongqing e Bo Xilai e Wang Lijun (sembrano trame degne di Hollywood, a parte le implicazioni con gli affari e i servizi di intelligence). Questo clima si è protratto sino al 10 aprile, quando, sotto la spinta di un’opinione pubblica poco convinta, il governo centrale ha diramato la notizia dell’espulsione di Bo e della grave accusa che pende sul capo della moglie; parallelamente, i media ufficiali hanno lanciato una campagna contro i “pettegolezzi”. Tuttavia, possiamo aspettarci ancora molte altre dicerie d’importazione che verranno vendute sul mercato locale, perché l’annuncio ufficiale del governo non fa che comprovare quelle che prima erano soltanto “voci”. In tutta questa vicenda i pettegolezzi (o le dicerie) sono serviti a buttare ulteriore benzina sul fuoco. Essi prendono forma grazie ai seguenti fattori: Da parte cinese il personaggio coinvolto viene isolato dal resto della società e si evitano dichiarazioni plateali; la parte americana (il Consiglio di Stato, o l’ambasciata) presenta i fatti in tono lieve e distaccato (Wang aveva già fissato l’appuntamento in consolato e ne è uscito di sua spontanea volontà, questo è quanto), anche se poi le conclusioni suonano come “il fatto è gravissimo”, e “le conseguenze saranno pessime”. Lo spazio vuoto fra il riserbo della stampa e le decisioni politiche effettive rappresenta il miglior terreno di coltura per la politica del pettegolezzo. I primari organi d’informazione di partito (come il Quotidiano del Popolo, la CCTV) e quelli secondari (che si autodefiniscono liberal: i media del sud, ecc.) si sono coordinati perfettamente nella creazione di una “politica dei fatti” condita di democrazia, libertà e apertura. Il leitmotiv non si discosta affatto dalla retorica della conferenza stampa di Wen Jiabao: “il risveglio del popolo”, “riforma e apertura” e “democrazia politica”. La millanteria di queste formule difatti serve alla politica della segretezza per manipolare la “realtà” – una “realtà” pesante, ma che non può essere resa subito di pubblico dominio. Mentre i siti della sinistra venivano chiusi o oscurati, i media stranieri e persino quei “siti nemici” che di solito sono bloccati (come ad esempio il sito del Falungong) all’improvviso sono divenuti visibili fungendo da cassa di risonanza per le dicerie, che sono presentate come segreti rivelati e quindi ammantate di un alone di verosimiglianza o di parziale verità. L’attuale politica delle stanze segrete ha i tratti caratteristici dell’era dell’informazione globale: la fabbricazione dei pettegolezzi politici avviene grazie alla interazione concertata fra politici cinesi e statunitensi e i media nazionali e internazionali (che includono tanto i media mainstream quanto la rete). Non si tratta qui degli usuali pettegolezzi. Difficilmente troveremo delle discrepanze nelle versioni fornite dal New York Times, dal Financial Times, dal Wall Street Journal o da consimili fonti, né ci risulta facile distinguerle dalle fonti cinesi, coi loro titoli allusivi. Inoltre la politica delle stanze segrete ha sempre un lato esposto alla luce ed è difficile tracciare il confine fra le dicerie e la realtà. Ma il fulcro della questione è il controllo sui pettegolezzi: come li si crea e li si distrugge, come li si usa, come si pesca in acque torbide. E’ questa l’opera di un unico potere in grado di manovrare tutto, o viceversa sono più poteri che agiscono di concerto creando una fitta trama di misteri? Tramite le conferenze stampa, i comunicati del governo centrale, il rullo di tamburi e gli squilli di trombe che hanno preceduto la sostituzione del dirigente, si è proclamata la gravità della vicenda e ciò che prima era stato blandamente definito un “caso isolato” è divenuto un evento politico di primaria importanza. Stando al discorso di Wen Jiabao, nella riforma di Chongqing si presagiva un possibile ritorno alla “tragedia” della “rivoluzione culturale”, e questa altro non è che una sentenza politica pronunciata in anticipo. E’ una sentenza “anticipata”, perché la profezia di un remake della rivoluzione culturale è ben lungi dall’avverarsi e il verdetto si basa su un’accusa ideologica priva di contenuti; d’altro canto è una sentenza “politica” perché ha fatto sì che il “caso isolato” di Wang Lijun assurgesse al rango di lotta politica fra due linee. La sentenza significa insomma che in Cina non può esistere una vera politica, una politica aperta e pubblica, ma può darsi solo una politica confinata nelle stanze segrete – una politica manovrata dal potere – la quale cancella le lotte di linea e i conflitti aperti delle pratiche sociali. La “rivoluzione culturale” ha qui una portata simbolica studiata. Il discorso del premier durante la conferenza stampa ha avuto un enorme impatto sull’opinione pubblica; dopo una prima fase in cui si è sottolineata la carica politica degli avvenimenti, il governo ha cambiato strategia, attenuando i toni politici e rimarcando in ogni modo la violazione della legge di Bo e della sua consorte. Attualmente quella di Chongqing non è più una vicenda politica, ma un caso giudiziario con dei risvolti complessi. Tutti noi conosciamo già gli sviluppi recenti: i media britannici hanno pubblicato la notizia dell’assassinio dell’amico di famiglia di Bo Xilai Neil Heywood, poi le autorità cinesi hanno dichiarato che la moglie di Bo è sospettata e Bo è stato rimosso dalle sue cariche in quanto potenzialmente coinvolto. Due giorni prima di quest’annuncio, il sito di “Utopia” e altri siti della sinistra cinese sono stati chiusi perché “violano la costituzione, attaccano i dirigenti e mettono in dubbio l’organizzazione del XVIII Congresso”. La chiusura dei siti di sinistra era ovviamente il preludio all’annuncio e mirava a prevenire le possibili discussioni in rete. Dal momento che nessun verdetto è noto al pubblico e quel poco che si sa si limita alle stringate dichiarazioni ufficiali, una nuova ondata di dubbi ha travolto Weibo. L’effetto di questa politica è di rivelare solo le notizie selezionate. Dopo il 15 marzo, un giornalista del Financial Times ha affermato: “nel 2012, la spessa e alta cortina che avvolgeva i governanti della Cina non è più così impenetrabile”, ma in realtà questa cortina non è mai stata del tutto impenetrabile: in risposta ai gravi problemi sociali e politici che emergono di continuo, nella società cinese è sempre esistito un dibattito pubblico, ampio benché sottoposto a una costante censura, e inoltre in determinati momenti lo stato lasciava trapelare le notizie. L’idea che “non sia più così impenetrabile” legittima la politica della segretezza e conia l’immagine dell’ “apertura”, ma solo a certe condizioni, e in un altro modo ribadisce un pregiudizio sulla Cina. Quest’espressione ora di moda non solo crea una falsa immagine della Cina, ma fa passare per “illuminata” una nuova decisione arbitraria. Oggi, il vero problema non è dire sì o no alla riforma, né è dire sì o no alla democrazia, ma è se vogliamo una politica pubblica o una politica delle stanze segrete, se vogliamo appagare il bisogno della società di conoscere i fatti per quello che sono o se preferiamo la “realtà” confezionata nelle stanze segrete della politica. Questo principio “è chiaro a tutto il popolo”, mentre coloro che spargono le voci in giro per rovesciare un velleitario definito “il più grande pericolo futuro” non ne sanno alcunché.
La creazione di un precedente politico per un nuovo round di riforme neoliberiste
Si adopera la politica delle stanze segrete per reprimere la politica pubblica e al contempo ci si para dietro alla scusa di una nuova, ulteriore riforma per legittimare la repressione: ecco che si ripete un trucchetto in auge dal 1989. A prescindere dall’eventuale fondatezza delle accuse rivolte a Bo e a sua moglie, l’attuale manipolazione della politica mira a creare un’atmosfera repressiva, che verrà sfruttata per far passare quelle manovre neoliberiste che la popolazione in genere aborre. Proprio per questa ragione, in un primo momento si è sottolineata la portata politica dell’incidente, la quale però è stata smentita non appena l’opinione pubblica ha cominciato a parlarne animatamente. L’attuale congiuntura cinese è paragonabile a quella del 1989: allora, erano falliti i due tentativi dell’anno prima di promuovere lo “sblocco dei prezzi” [3], viceversa il sistema dei contratti di responsabilità imposto dall’alto si diffondeva senza incontrare ostacoli; all’ombra del “sistema a doppio binario” la pratica del rent seeking del potere favorì la corruzione, le divisioni sociali si acuirono in brevissimo tempo ed infine la morte di Hu Yaobang funse da punto di svolta perché nascesse un movimento di protesta. Inoltre, a causa delle divisioni interne del potere centrale, i media rimasero fuori controllo e così si crearono le condizioni per un’ampia mobilitazione sociale. Tuttavia, dopo la repressione violenta dell’ ’89, lo “sblocco dei prezzi” entrò in vigore senza venire più disturbato dalle proteste. E’ un peccato che proprio ora che celebriamo il ventesimo anniversario del “viaggio al Sud” di Deng Xiaoping, nessuno ricordi un dato storico fondamentale: il 1989 fu la necessaria premessa del tour di Deng del 1992. Il “viaggio al Sud” lanciò un modello di mercatizzazione pur sotto il controllo del potere politico, col risultato che le riforme di stampo neoliberista presero piede diffondendosi su vasta scala: la privatizzazione delle imprese statali provocò una crescita massiccia dei tassi di disoccupazione e una corruzione istituzionalizzata, mentre nel frattempo la riforma agraria subiva una battuta d’arresto, causando così una “triplice crisi agraria” (sannong weiji; triplice in quanto estesa all’agricoltura, ai contadini e alle campagne, ndt.). Il sistema del welfare (comprensivo del sistema di copertura sanitaria) andò incontro al processo di privatizzazione e mercatizzazione, finendo per minare tutte le garanzie sociali; la forbice fra ricchi e poveri, la divisione fra città e campagne e fra regioni, nonché la crisi ambientale rappresentano l’esito delle manovre ispirate al neoliberismo più classico. Per la prima volta nel 2008 il Consiglio di Stato pubblicò le stime annuali riguardanti gli “incidenti di massa” (le rivolte, ndt), che ammontavano a 80.000 casi. A distanza di tre o quattro anni, pare che gli incidenti abbiano raggiunto la soglia di 180.000 casi, ma le autorità non divulgano più i dati. Proprio grazie all’esistenza di queste diverse crisi, il vasto dibattito intorno al problema agrario (il cui evento simbolico fu il rapporto di Li Changping nel 2000, “Una lettera al premier”) portò alla riduzione delle tasse per i contadini e alla nascita del movimento di ricostruzione delle aree rurali; nel 2003, la Sars fece sì che i nodi della riforma sanitaria venissero al pettine e fossero discussi pubblicamente: alla fine passò una riforma di segno diametralmente opposto rispetto a quella precedente, ispirata al neoliberismo. E ancora, nel 2005, grazie alla “contesa fra Lang e Gu”, si sviluppò in modo inedito il dibattito sulla riforma delle imprese statali e sulle sue conseguenze, il quale incise sulla regolamentazione della manovra e sul progressivo miglioramento delle condizioni delle aziende di stato [4]. (…) Quando le discussioni pubbliche si focalizzarono sulle “tre montagne” [casa, istruzione, sanità, ndt], la società cinese richiese a gran voce che ci si interessasse di più al “benessere del popolo” (minsheng). Di tutta risposta, il PCC riaggiustò il proprio programma di governo e lo slogan “diamo più rilievo alla giustizia sociale” prese il posto di “il primato all’efficienza, poi ci si occupa dell’equità”; negli ultimi anni, l’ “attenzione per il benessere del popolo” è diventata un richiamo sempre più insistito nei discorsi del partito. In realtà, la capacità di reagire prontamente ai dibattiti della società, l’ascolto delle richieste provenienti dalla base e la conseguente disponibilità a modificare le proprie policies costituiscono le fondamenta su cui “le nuove politiche di Hu e Wen” hanno cementato la propria legittimità. Tuttavia, una volta chiusa la fase di consolidamento, la riforma si è arenata; con gli avvicendamenti del potere, molte iniziative sono cadute nel vuoto. Nel breve arco di questi ultimi anni, il processo di burocratizzazione delle istituzioni dello stato ha conosciuto una repentina accelerazione. In netto contrasto con tutto ciò, le riforme promosse dalle varie amministrazioni locali e la competizione fra i diversi modelli possibili rappresentano invece la vitalità della riforma cinese. Esse hanno dato adito a una serie di dibattiti pubblici, favorendo la partecipazione popolare e la molteplicità degli esperimenti, rilanciando inoltre lo sviluppo della Cina in un momento di crisi economica globale. Negli ultimi anni, l’attenzione degli osservatori internazionali si è focalizzata su Chongqing, il Guangdong, Chengdu, il sud del Jiangsu coi rispettivi esperimenti locali e su Chongqing in modo particolare. Infatti, i modelli locali, pur partendo dalla comune premessa dell’apertura, portano avanti una sperimentazione che è sempre un work in progress: talvolta competono fra loro e talaltra agiscono in sinergia, anche se nella maggior parte dei casi si richiamano e si uniformano l’uno all’altro; ad ogni modo, poiché la società ha in sé una forte carica di scontento, dato dalle divisioni fra ricchi e poveri, fra città e campagna, o fra una regione e l’altra, sempre più persone si sono lasciate coinvolgere nel dibattito sui modelli locali. Rispetto agli altri, il modello Chongqing ha dato maggior rilievo all’integrazione fra le aree urbane e quelle rurali, alla ridistribuzione della ricchezza ed alla giustizia sociale; inoltre, grazie al tessuto industriale preesistente, lo sviluppo della città ha potuto fare affidamento soprattutto sul settore statale. Le case popolari, l’ “avanzamento sia dello stato che dei privati” (guojin minjin) o il mercato dei land certicates sono tutte misure che hanno saputo rispondere in modo più vivace e operativo alle richieste di maggior equità emerse dai dibattiti sulla riforma nella Cina del nuovo secolo. Perciò, l’esperimento di Chongqing non solo è materia di discussione fra destra e sinistra, ma viene dibattuto alquanto accesamente anche all’interno della stessa sinistra così come all’interno della destra. Benché non risponda ad un modello preciso e fissato a priori, l’amministrazione di Chongqing ha esposto pubblicamente le proprie posizioni e i propri valori, dichiarando di voler mantenere una coerenza fra questi e la pratica di governo, cosa per cui ha raccolto un duraturo consenso e scatenato molte intense controversie. Dal punto di vista temporale, gli esperimenti di riforma di Chongqing coincidono con la crisi del capitalismo globale. Da un lato, le nazioni sviluppate di Europa e USA sono precipitate nella crisi finanziaria, sociale e politica e l’esigenza di ripensare il neoliberismo è tale che il tema è stato trattato pure al forum di Davos, avamposto delle politiche neoliberal; dall’altro, le guerre in Iraq, Afghanistan e Libia, la crisi in Medio Oriente e in Nord Africa, nonché i conflitti ai confini della Cina incitati dagli Stati Uniti hanno fatto crollare l’immagine dell’America, la culla del neoliberismo, agli occhi dei cinesi. L’ideologia neoliberista è sull’orlo del collasso e la nuova generazione si sta scrollando di dosso le illusioni di quell’ideologia. Il fatto che il modello cinese o quello di Chongqing divengano oggetto di accesi scambi di idee rispecchia l’attuale condizione ideologica. Dunque, senza una nuova temperie politica, sarebbe impossibile riprendere in tutta serenità le riforme neoliberiste che nel 2000, e ancor più dal 2005 in poi, sono state in qualche modo interrotte. Quest’atmosfera non può essere creata dal basso, né è stata creata dai giornali del sud, che stanno perdendo credibilità. Zoellick è venuto in visita in Cina e in cooperazione col Centro per lo Sviluppo del Consiglio di Stato ha presentato il rapporto della Banca Mondiale, ma è bastata l’intromissione di “un uomo della strada” per attirare l’attenzione dei media di tutto il mondo e ottenere il sostegno dei netizens cinesi. Al momento, ci risulta difficile stabilire se l’incidente di Chongqing sia riducibile alla dinamica scatenata dalla violazione delle leggi da parte di Bo Xilai o della sua consorte, o se invece abbia un più profondo significato politico; quel che è certo, è che la vicenda di Wang Lijun ha offerto sul piatto d’argento l’opportunità di riavviare le manovre neoliberiste. Se la vicenda fosse stata gestita sin dal principio alla luce del sole, a prescindere da chi sia il sospettato e dal suo rango ufficiale, se ci si attenesse semplicemente alla disciplina di partito e alle leggi dello stato, non si potrebbe profilare lo scenario attuale. Ma dacché gli eventi e il loro contesto sono stati occultati in una stanza segreta e restano avvolti nel mistero, ciò che resta è un margine ancor più ampio per le manipolazioni del potere. Il discorso di Wen Jiabao ha espanso la portata del “caso isolato” di Wang Lijun che entra in consolato sino a (farne il parametro per) giudicare l’esperimento di Chongqing, e non solo: arriva a ventilare un ritorno della tragedia della rivoluzione culturale, richiamandosi alla linea stabilita dal terzo plenum del XI Comitato Centrale e alle risoluzioni del PCC sul problema della storia e quindi dando l’impressione che il modello Chongqing sia stato un enorme errore politico, in quanto ha abbandonato la retta via delle riforme. Due giorni dopo la notizia dell’incidente, si è svolto a Pechino il forum sullo sviluppo organizzato dal Centro per lo Sviluppo del Consiglio di Stato: ivi i due rappresentanti del neoliberismo cinese Wu Jinglian e Zhang Weiying hanno presentato sotto altra forma (in realtà ripetuto) i loro piani di riforma che da dieci anni sono bloccati perché disapprovati dalla società: la privatizzazione delle aziende, quella delle terre e la liberalizzazione finanziaria. Piani che sono in assoluta continuità con il rapporto della Banca Mondiale. La possibile crisi che i piani di salvataggio del mercato promossi dai poteri vigenti mettono in luce può tradursi anche in una crisi del sistema statale cinese e quest’ultima è il bersaglio delle riforme politiche auspicate da Wen Jiabao. Alcune misure erronee portare avanti da Wen sono state interpretate come “problemi del sistema”, e quindi la responsabilità si è trasformata in una scusante. Al contempo, il 18 marzo, la Commissione per lo Sviluppo e la Riforma del Consiglio di Stato ha pubblicato le “Opinioni sull’essenziale lavoro di approfondimento della riforma del sistema economico nel 2012”, in cui non solo si citano la mobilità dei capitali statali e la loro conversione in titoli azionari, ma si fissano pure le clausole per la privatizzazione, totale o parziale, delle ferrovie, dell’istruzione, della sanità, delle telecomunicazioni e delle risorse. Il 12 aprile, sul “Quotidiano del Popolo” è apparso un articolo a tutta pagina intitolato “Abbiamo cura delle riforme ‘conquistate con il sudore della fronte’ e, con passo fermo, avanziamo” in cui da un lato si promette la separazione delle aziende di stato dal controllo del partito e dall’altro si elencano i risultati riportati da queste aziende, ci si oppone alla privatizzazione e si svela così l’esistenza di una controversia interna al sistema stesso nata con la riforma del settore statale. Ma, dato che quasi tutti i siti della sinistra sono stati oscurati, difficilmente potrà sorgere una mobilitazione contro il neoliberismo come quella degli anni passati. Questo è il risultato, tutto politico, della campagna antipolitica contro i “pettegolezzi”. Per dirla altrimenti, grazie alla vicenda di Chongqing, l’ondata neoliberista che non è mai del tutto scemata potrà rimontare ora con rinnovato impeto: possiamo solo attendere e vedere cosa ne sarà delle vite dei comuni lavoratori e dove ci condurrà la trasformazione dello stato.
La retorica della “rivoluzione culturale” e del “risveglio” e il nichilismo politico
Le pesanti ripercussioni che l’ “incidente di Chongqing” ha avuto sono strettamente legate all’arte retorica dimostrata da Wen Jiabao durante la conferenza stampa (del 14 marzo). Il premier dapprima “ha rilevato” l’atteggiamento prudente della Corte Suprema nei confronti della milionaria Wu Ying [5], per poi suggerire che le riforme di Chongqing potrebbero condurre a un remake della rivoluzione culturale. Il verbo “ha rilevato” indica la richiesta, espressa in un linguaggio legalitario, di modificare la legge nei riguardi di un caso individuale, mentre ciò che “suggerisce” è l’innalzamento del “caso isolato” di Wang Lijun sino alle altitudini della tragedia rivoluzionaria: qui ci si avvale di una precisa retorica politica atta a definire la sostanza delle riforme di un governo locale. Assaporiamo di nuovo la brillante eloquenza di Wen Jiabao. Dopo aver riconosciuto i risultati del governo di Chongqing “nelle precedenti sessioni”, il discorso vira in tutt’altra direzione: “l’amministrazione municipale vigente e il comitato di partito della città devono avviare una riflessione e trarre una lezione dall’incidente di Wang Lijun”; dopo di che, dichiara di “dover dire qualcosa”: “dalla fondazione della Repubblica Popolare in poi, sotto la guida del Partito e del governo, l’opera di modernizzazione del paese ha raggiunto dei grandiosi risultati; tuttavia, quella che abbiamo percorso è una via tortuosa, che contiene delle lezioni. Il terzo plenum del XI Comitato Centrale e in particolare le risoluzioni del PCC rispetto ai numerosi problemi storici hanno posto le basi per la linea di pensiero e la fondamentale linea del partito, che consiste nella ‘liberazione del pensiero’ e nella ‘ricerca della verità nei fatti’; si è inoltre imboccata la strada della ‘riforma e apertura’, che ha deciso il destino e le prospettive della Cina. La storia ci dice che tutte le pratiche atte a soddisfare gli interessi del popolo devono aver tratto una lezione dall’esperienza storica e devono passare al vaglio della storia stessa. Questo principio è chiaro a tutto il popolo; pertanto, noi siamo fiduciosi rispetto al futuro”. La rivoluzione culturale si è conclusa quasi quarant’anni fa, l’odierna fase di riforma è alquanto complessa e da molto tempo non è più comparabile al contesto degli anni ’70. Data la complessità del presente, perché si ricorre a vuote accuse per definire l’esperimento di Chongqing? Esso può benissimo contenere molteplici errori e carenze, di cui peraltro si è discusso abbondantemente negli scorsi anni, ma i dibattiti vertevano appunto su delle istanze concrete ed in seguito al confronto aperto e alle verifiche empiriche si potevano apportare dei miglioramenti. Allo stesso modo potremmo chiederci: il modello del Guangdong ha dato adito a così tanti problemi, e da cosa mai sono causati? Una nuova crisi ha investito Wenzhou, ma che cosa l’ha provocata? Questi non sono problemi di natura diversa da quelli di Chongqing e l’analisi critica nell’uno e negli altri casi dovrebbe svolgersi nel contesto di una politica pubblica. Gli “intellettuali pubblici” dei media hanno affibiato l’etichetta di “feccia della rivoluzione culturale” a tutti quelli che hanno opinioni diverse dalla loro, oltre ad aver bollato l’intera riforma di Chongqing come un ritorno alla “rivoluzione culturale”. Ora il gruppo dirigente ha scagliato lo stesso anatema politico invocato dagli intellettuali pubblici e questo fatto meriterebbe una più attenta riflessione. Come tutti sanno, la “rivoluzione culturale” è un tabù in Cina: da un lato è stata “negata integralmente”, dall’altro ne è vietato lo studio. All’interno della sfera pubblica, tale evento non richiede particolari analisi e spiegazioni, viceversa può essere impiegato per attaccare “il nemico”. Funziona come un maleficio: serve come capo d’accusa, ma non come strumento di discussione; serve alla persecuzione politica, mai alla ricerca storica. Stando alla suddetta retorica, l’esperimento di Chongqing viene accuratamente distinto dagli altri esperimenti locali: è trattato come un oggetto isolato, proprio come la “rivoluzione culturale”, e quindi può essere politicamente condannato e punito. Parimenti, i politici e gli intellettuali coinvolti sono a loro volta fatti oggetto di scherno e di accuse – sono “dei velleitari, dei cospiratori, degli agenti della propaganda ideologica intenzionati a invertire il corso della storia”… Invero, non è Wen Jiabao l’inventore di questa retorica, perché dalla fine degli anni ‘70 ad oggi ad essa hanno attinto a piene mani le élite del potere e i gruppi del sud. Il ricorso all’anatema “rivoluzionario” per soffocare lo scambio di idee, per colpire il proprio nemico politico o persino per perseguitarlo è un vecchio trucchetto che tutti conoscono bene. Per quanto ci sia risultata incantevole la conferenza stampa tenuta dal premier, essa non differisce dalla sua arte oratoria: è un po’ come se si dedicasse alla contemplazione del cielo stellato perdendo ogni contatto con la terra. Per comprendere le concrete implicazioni del suo discorso, occorrerebbe cogliere i rapporti di potere sottintesi e gli interessi esistenti sul piano reale; da questo punto di vista, potremmo sintetizzare così tutta la situazione: “i media si fanno partito politico, mentre i politici diventano i nuovi media”, ovvero l’eloquenza di questi ultimi va di pari passo con la volontà dei media di agire come un partito, in modo da raccogliere il consenso e accumulare risorse che poi verranno reinvestite nella arena politica. L’uso retorico della “rivoluzione culturale” da parte di Wen Jiabao ha anche una funzione positiva, dal momento che sottolinea la portata politica dell’incidente e suggerisce che esistono differenti modi di intendere le riforme in Cina. Infatti, non si tratta qui della lotta fra chi vuole e chi si oppone alla riforma, bensì della lotta fra diverse linee e interpretazioni della riforma stessa. Nella complicata evoluzione della Cina contemporanea, l’esistenza di un dibattito aperto sulle diverse linee politiche e sui rispettivi valori, il confronto e la competizione fra i vari esperimenti locali rappresentano forse la giusta premessa al successo della via riformatrice. D’altra parte però, l’analogia con la “rivoluzione culturale” a cui ricorre Wen Jiabao annulla il significato politico dello esperimento di Chongqing. Del resto, quella in cui viviamo ora è l’era della depoliticizzazione e la politica al momento in auge è una politica depoliticizzata. Sono due i principali modelli di questo tipo di politica: 1. le logiche della politica sono state spazzate via dalle logiche del commercio, il discorso dello sviluppismo ha cancellato la partecipazione politica e il nuovo assetto degli interessi del capitale impedisce un confronto aperto fra i diversi valori politici. 2. La politica delle stanze segrete ha soppresso la politica pubblica, le lotte di potere hanno preso il posto del conflitto politico e il potere viene accaparrato eliminando i propri avversari. La politica delle stanze segrete non solo soffoca la politica che sta nascendo, ma addirittura proclama che la gente non ha il diritto di partecipare alla vita pubblica, riaffermando la propria autorità suprema e invocando principi che “sono chiari a tutto il popolo”. Dal punto di vista di chi manipola il potere politico, la politica è semplimente una partita a scacchi che si gioca all’interno del sistema statale. Se paragoniamo la conferenza stampa del premier del 14 marzo con il documento del PCC in cui si dichiara l’espulsione di Bo Xilai del 11 aprile, noteremo un cambiamento nel registro retorico, ossia la prima enfatizza la natura politica dell’incidente, mentre il secondo prende di mira soltanto la condotta non conforme alle leggi di Bo e di sua moglie: la prima è politica, il secondo è giustizialista. Come va interpretato il gap che intercorre fra la prima spiegazione politica con quel che ne è seguito e il successivo richiamo, ancor più depoliticizzante, alla legge? La politica delle stanze segrete si attua in nome della democrazia, della libertà e della morale, però quel che ne consegue non è certo un rilancio della politica, ma semmai una ricollocazione della politica nella cornice dell’a-politica. Proprio mentre stava parlando della riforma politica in Cina, Wen Jiabao ha menzionato il “risveglio del popolo”. Il premier si rivolgeva alla telecamera come un profeta che sta arringando un gregge di milioni di persone che ancora non si sono “risvegliate”, ma in fondo a chi era rivolto questo discorso sulla riforma cinese e il risveglio popolare? In base a questa retorica, i dibattiti e la partecipazione attiva che coinvolgono non solo Chongqing, ma pure un gran numero di cinesi, nascerebbero dall’ignoranza e dal sonno della ragione. Tuttavia, a prescindere da cosa sia successo a Chongqing, l’obiettivo del benessere comune a cui tendeva quest’esperimento ha suscitato l’entusiasmo e le aspettative di moltissimi giovani. E dunque, nella Cina di oggi, le politiche che mirano all’eguaglianza e al benessere diffuso sono politiche dettate dall’ignoranza, o rappresentano invece il “risveglio” invocato da questo abilissimo retore? Se sono il frutto dell’insipienza, allora con quale politica si identifica il “risveglio”? La politica dell’ 1% contro il 99% potrebbe mai essere la politica ideale? Il “risveglio del popolo” potrebbe mai coincidere con le richieste di chi rappresenta l’1% (ossia con la privatizzazione delle aziende, la privatizzazione della terra, i piani neoliberisti di liberalizzazione finanziaria e un sistema statale che vigila su tutto ciò)? La rete, pur sottoposta alla censura, è piena di storielle e commenti satirici, che tramite il sarcasmo cercano di mascherare la disillusione; si prenda ad esempio questa battuta: “i crimini della feccia (rivoluzionaria, ndt) sono: 1) occupare i lotti di terreno dei real estates e permettere al popolino di merda di comprare e affittare casa…”. I giovani che non hanno fatto esperienza diretta del 1989 o del periodo precedente non restano irretiti dall’arte dei retori, ma forse proprio perciò perdono qualunque fiducia nella politica; il dilagare dei pettegolezzi non solo aiuta i depositari del potere a sconfiggere i propri avversari, ma scuote pure le fondamenta della sfera politica; l’entusiasmo per la partecipazione diretta che nelle ultime generazioni si trova ancora allo stadio embrionale rischia di raffreddarsi sino a sfociare in una sorta di nichilismo. E il nichilismo politico è appunto l’altra faccia della politica delle stanze segrete, oltre ad essere il più florido terreno di coltura per la depoliticizzazione – così il potere può portare avanti indisturbato i suoi programmi neoliberisti e antipopolari, agendo in nome del “popolo”. In siffatte circostanze, l’effetto politico della vicenda di Chongqing è appunto il diffondersi del nichilismo politico: la gente non può più credere alla politica, né può più credere alla legge. E questo è l’autolesionismo del sistema politico cinese.
La trasformazione di cui la Cina ha bisogno va nella direzione di una politica pubblica
La Cina ha bisogno di una trasformazione politica. La quale non è la promessa di una vuota riforma politica, né può coincidere con un sistema pluripartitico fondato sulle privatizzazioni e sulla egemonia del capitale, ma consiste nella politica pubblica che possiamo praticare sin da oggi. La politica delle stanze segrete è la riprova che i poteri odierni mancano di rappresentatività e di basi politiche. In un’epoca interamente sommersa nelle retoriche politiche, urge distinguere chiaramente le due possibili vie di riforma: la prima via s’identifica con i piani del neoliberismo, decisi nelle stanze segrete e attuati in nome della democrazia e della libertà; come nel caso dell’ex Unione Sovietica, questa via porta ad una politica partitica oligarchica e impone le sue riforme calandole dall’alto. Così si verificherebbe una transizione da una politica priva di rappresentanza ad un’altra politica priva di rappresentanza, nel contesto della crisi del sistema neoliberista. La cosiddetta “rivoluzione colorata” ne costituisce l’esempio paradigmatico, poiché in ultima analisi torna utile ai gruppi di potere monopolistici e alle potenze egemoni internazionali. L’altra via coincide invece con la politica pubblica e con una trasformazione guidata dalla partecipazione delle masse e dal libero scambio di idee: il suo fine sarebbe una riforma atta a favorire il più alto numero di persone e a ostacolare qualunque sistema mondiale fondato sull’egemonia – sarebbe insomma una riforma socialista, opposta a quella neoliberista e antipopolare. La riforma politica è intimamente legata alla riforma della società. In altra sede ho affermato: “lo iato fra le élite della politica, dell’economia e della cultura coi loro rispettivi interessi da un lato e, dall’altro, le masse costituisce il fondamento sociale della rottura (del meccanismo) della rappresentanza. Perciò i partiti, i mezzi di informazione e il sistema giuridico, per quanto si appellino a dei principi universali, non sono in grado di rappresentare gli interessi della società e l’opinione pubblica, ma al più incarnano la frattura stessa della rappresentanza”. Senza una riforma che tenga conto dell’assetto sociale, non potrà mai prodursi una vera politica dell’uguaglianza, né si potrà arginare lo iato fra le istituzioni e la società. Per poter promuovere le manovre di riforma economica e sociale che già sono state lanciate, prima di tutto bisognerebbe creare una politica pubblica, e opporsi alla politica delle stanze segrete. Per battere la politica della segretezza, innanzitutto dovrebbero essere garantite la libertà di parola e la libertà di associazione. Questo è un primo punto. Con libertà di parola però non si intende qui la libertà dei mezzi d’informazione, visto che al momento attuale i media sono una forma di monopolio con una rigida organizzazione in corporations e un alta concentrazione di capitali, per cui non possono certo fungere da garanti della libertà d’espressione dei cittadini, ma al contrario possono darsi alla manipolazione e alla persecuzione politica. Oggi non sono solamente complici della politica delle stanze segrete, ma in senso lato e nei tempi lunghi si può dire che abbiano istigato l’azione del potere nei confronti di Chongqing. Pertanto, si dovrebbe modificare l’assetto monopolistico dei mezzi d’informazione attraverso delle leggi e dei regolamenti, così come andrebbe limitato il controllo del potere politico e economico sull’opinione pubblica. Soltanto su queste basi i cittadini potrebbero costituire delle associazioni e fondare i propri media, nella tutela del diritto fondamentale alla libertà di parola. In seconda istanza, andrebbe espansa il più possibile la partecipazione dei cittadini al processo decisionale di policy making, potenziando inoltre i meccanismi di supervisione; al fine di vigilare efficacemente sui possibili traffici del potere, i funzionari governativi dovrebbero dichiarare in sede pubblica i propri redditi, e non solo: i passaggi di proprietà dovrebbero avvenire sotto la sorveglianza giuridica di un ente apposito. Infine, come terzo punto, “la riforma degli apparati dirigenti” non può svolgersi indipendentemente da quanto detto sopra, se deve gettare le basi della politica pubblica e se davvero si vuole scongiurare il rischio che questa ultima ricada nel dedalo delle stanze segrete. La politica pubblica, congiunta alla linea di massa, è il fondamentale enunciato della riforma politica della Cina. Soltanto in presenza di una politica pubblica la democrazia non rischia di trasformarsi in una nuova forma di legittimazione delle diseguaglianze; e soltanto una democrazia aperta alla partecipazione di tutti, senza differenze, ci garantisce che essa non verrà presa in ostaggio da una minoranza di potenti o da interessi monopolistici. In una congiuntura così complicata e ambigua, non si può fare a meno di chiedersi, sia all’estero che in patria, quali prospettive abbia ora la riforma cinese. In questa fase di ripiegamento dell’ondata neoliberista, fuori e dentro i confini della Cina, come valutare le più recenti evoluzioni? (In modo del tutto imprevedibile), un “caso isolato” ha condotto a un cambiamento radicale a Chongqing; parimenti, oggi qualsiasi previsione basata sul determinismo non è che l’inafferrabile responso degli indovini dell’ultima ora. Nella marea montante dei pettegolezzi e delle voci di corridoio, le teorie sul crollo della Cina stanno ovviamente tornando in auge, però sta di fatto che dal 1989 in poi ad essere crollate sono le teorie, e non la Cina. La ragione è la seguente: coloro che le hanno elaborate enfatizzano troppo la volontà di un singolo personaggio politico, senza considerare le volontà del popolo, oppure danno eccessiva importanza ad un dato mutamento, ignorando però l’enorme trasformazione e le energie accumulate dalla società e dallo stato cinesi nell’arco del ventesimo secolo, e quindi non comprendono né le tradizioni, né la capacità di rinnovarsi di questo paese. Limitando il discorso all’ultimo decennio, l’impegno e gli sforzi profusi dalla società per conquistare l’uguaglianza, la giustizia e la democrazia non devono essere buttati al vento, anche perché già hanno avuto una realizzazione concreta in numerosi piani di riforma. Mettere in dubbio queste conquiste o voler cancellare la storia delle lotte attraverso cui si è giunti a queste conquiste, questo sì che è invertire il corso della storia. Ai potenti questo punto “è chiaro” e dunque non possono far altro che aspettare “il risveglio del popolo” da loro auspicato. Quest’auspicio però più che altro dimostra che costoro si trovano in una posizione isolata, sul versante opposto rispetto al popolo, avvolti nell’ombra dell’insipienza. Se solo osservassero l’odierno assetto del mondo e la crisi che lo pervade, capirebbero che la propria eloquenza non può sortire effetto alcuno, eccezion fatta per l’autoinganno. E non solo: in realtà stanno negando le opere compiute dallo stato negli ultimi dieci anni, sotto la spinta di un’enorme pressione, per rispondere alle richieste di giustizia che provenivano dalla società. Se i politici pensano che tale operato servisse unicamente a consolidare il proprio potere, deviano dai bisogni della maggioranza e alla fine in nome dei loro giochi di potere si ritroveranno a recitare il ruolo degli schizofrenici sul palcoscenico della storia. Oggi, ciò che più conta per determinare il futuro della Cina è appunto capire come superare il nichilismo prodotto dal teatrino dei politici, dal monopolio dei mass media e dal controllo del capitale, in modo che sempre più persone si appassionino alla politica e si dedichino seriamente e concretamente alla trasformazione della Cina. La storia appartiene agli uomini che stando coi piedi ben ancorati a terra riflettono e lottano per la vita dei cinesi e per un mondo più giusto.
Pubblicato su Alias, inserto de il manifesto, il 28 aprile 2012
Citata dall’autore con il suo nome proprio di “lianghui”, “doppio meeting”, in cui si svolgono in contemporanea l’Assemblea Nazionale del Popolo (NPC) e la Conferenza Politica Consultiva (CPPCC). Quanto a Wang Lijun, braccio destro di Bo Xilai, ricordiamo brevemente che il 6 febbraio scorso fu rimosso dal suo incarico di capo delle forze di polizia di Chongqing dopo che fu scoperta una sua misteriosa fuga al consolato americano di Chengdu.
13 settembre 1971: data in cui “cadde” l’aereo su cui volava Lin Biao.
Qui l’autore allude al primo tentativo di liberalizzazione dei prezzi, pensato per ovviare ai problemi causati dal “sistema del doppio binario”, che permetteva la coesistenza di un doppio prezzo, statale e non, per le merci. Con quel sistema si era creata una duplice (e instabile) economia, da un lato legata allo stato e dall’altra regolata dal mercato. Il governo pensò di liberare da lacci e lacciuoli i prezzi fissi delle merci statali e il risultato fu un’impennata dell’inflazione.
La disputa fra il professore di economia Lang Xianping e l’imprenditore Gu Chujun finì in tribunale quando il primo, durante una conferenza alla Fudan University di Shanghai, accusò il secondo, CEO del gruppo Greencool, di aver sottratto dei fondi durante la ristrutturazione dell’azienda e di esserci riuscito grazie alle carenze e alle ambiguità della legge cinese in materia.
Nome di un’imprenditrice accusata di aver raccolto illecitamente circa 123 milioni di dollari, la quale ora rischia la pena di morte. Le banche si erano rifiutate di concedere un prestito alla sua azienda e lei si è rivolta ai creditori privati, frodandoli. Il caso ha fatto scalpore perché denuncia il problema dei carenti finanziamenti bancari alle piccole imprese.
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