[di Angela Pascucci, 2008] È il 2006 e Shanghai aspetta i colpi che la Commissione d’inchiesta sulla corruzione inviata da Pechino infliggerà ad altre autorevoli teste della politica e degli affari dopo che, in settembre, era fragorosamente caduta quella del grande protettore, il segretario del Partito di Shanghai, Chen Liangyu. Chi ha la coscienza pulita scherza: «È andato a prendere un caffè». Scherniscono chi sparisce, convocato da uno dei 100 ispettori trasferiti in agosto a villa Moller, costruzione in stile neogotico nel cuore della città vecchia, edificata nel 1936 da un amorevole padre svedese per la figlia malata basandosi sulla visione architettonica avuta in sogno dalla fanciulla. Nello stravagante edificio che rammenta le paradossali opere di Escher, da mesi si respira un’aria da incubo e chi viene convocato parla a lingua sciolta, mentre dilagano i pettegolezzi sul «decadente stile di vita» e sulle numerose amanti degli incriminati, personaggi da tempo riveriti e oggi sottoposti alla gogna sociale.
Le «confessioni» produssero una catena di nuovi arresti che rallentarono il corso della giustizia. Un provvedimento «eccellente» colpì, nel dicembre di quell’anno, lo speculatore edilizio Zhjou Zhengyi vicino alla cerchia del segretario del partito e un tempo uno degli 11 uomini più ricchi della Cina. L’evento accese le speranze degli abitanti del distretto di Jingan che, già tre anni prima, lo avevano accusato di aver corrotto gli amministratori per ottenere in concessione, a prezzi di favore, i terreni su cui sorgevano le abitazioni che erano stati costretti ad abbandonare, in cambio di risarcimenti miserabili. All’epoca, l’imprenditore era già finito in carcere accusato di manipolazione di titoli e falsificazione di bilanci. Gli abitanti però non avevano ottenuto giustizia anzi, il loro avvocato, Zheng Enchong, era addirittura finito agli arresti domiciliari.
Oggi, che l’atmosfera sembra cambiata, sperano in qualcosa di meglio. Anche se, non solo a Shanghai, è opinione prevalente che gli eventi in corso fossero solo una resa di conti tra la fazione di Jiang Zemin e quella di nuova generazione guidata da Hu Jintao. Sulla volontà della leadership centrale di fare davvero pulizia della corruzione, finora parte integrante del sistema di scambio tra potere e denaro alla base del miracolo cinese, nessuno scommette, nonostante siano allo studio molti provvedimenti sulla gestione dei fondi pensione, il cui uso fraudolento era stato la causa dello scandalo di Shanghai. A fine novembre fu reso pubblico che 7,1 miliardi di yuan (700 milioni di euro) erano spariti in investimenti all’estero, speculazioni immobiliari, prestiti non autorizzati, e che una buona parte non sarebbe più stata recuperata alle tasche dei lavoratori.
«Se il problema fosse davvero affrontato alla radice dovrebbero mettere sotto inchiesta il 70-80% dei funzionari del Partito» osserva da Pechino l’avvocato Mo Shaoping, il difensore dei protagonisti delle rivolte operaie, di cyberdissidenti e giornalisti scomodi. L’avvocato è naturalmente poco indulgente verso un potere repressivo che troppo spesso lo sconfigge con i suoi metodi brutali. Ma la sua analisi discende dall’esperienza vissuta nei labirinti di un sistema giudiziario controllato dal Partito. In questa situazione di corruzione diffusa gli arresti, secondo l’avvocato, «indicano un criterio di scelta preciso: l’attuale governo si vuole sbarazzare della generazione passata». Infatti, sottolinea «sono anni che Chen Liangyu fa le cose per cui ora è incriminato ed era già stato messo sotto accusa più volte» ma «finché c’era Jiang Zemin a proteggerlo, poteva continuare ad agire indisturbato. Nel momento in cui è entrato in carica Hu Jintao, che protegge altri, non facendo Chen parte della sua fazione non riceve lo stesso appoggio né la stessa benevolenza. Così è stato fatto esplodere il caso di Shanghai. Questo fa capire la parzialità e la profonda ingiustizia del sistema». L’avvocato Mo non si lascia convincere neppure dalla portata delle indagini, che si sono allargate anche a Pechino, a Tianjin e in altre province, producendo ulteriori arresti. «In un modo o nell’altro» conclude «gli indagati appartengono sempre, guarda caso, a una stessa generazione o corrente politica». È anche alla luce di questi giudizi che appare ambivalente il provvedimento più recente di Pechino: rimuovere tutti i capi locali delle Commissioni per le ispezioni disciplinari – i castigamatti della corruzione – sostituendoli con uomini scelti dal governo centrale.
Qualunque sia l’azione in corso, un Armageddon piuttosto che una meschina lotta tra fazioni, l’insonne Shanghai non dà segno di esserne colpita a morte. Un piccolo incidente di percorso, uno sgambetto neanche troppo imprevisto sulla luminosa passerella da cui la rinata Perla d’Oriente marcia verso un visionario e radioso futuro. I cantieri a cielo aperto non smettono neppure per un minuto di spianare, rivoltare, costruire. E quel che si materializza sembra destinato innanzitutto a stupire, in un parossismo dell’ovale, del trapezio, del barocco, della torsione. Una sfida alla forza di gravità dove con le antiche forme cinesi vengono mescolate, con un’audacia prossima all’arroganza, le più moderne concezioni architettoniche. I maggiori architetti mondiali, come pure i più mediocri, sembrano avere carta bianca sul corpo di questa metropoli. Una frenesia da Prometeo impazzito che infonde un senso di incertezza negli abitanti che, quando gli va bene, assistono allo stravolgimento del panorama circostante, ma assai spesso subiscono lo sconvolgimento delle proprie vite deportate a chilometri di distanza, ai margini della foresta di pietra formata da oltre 500 grattacieli che superano i 100 metri di altezza.
La prossima tappa è l’Expo 2010, che sta cambiando i connotati di un’area di oltre 5 km quadrati, sulle due rive dello Huangpu a sud del vecchio Bund. Un investimento previsto di 10 miliardi di dollari destinato ad aumentare, se si aggiungono le infrastrutture collegate, di altri 15/30 miliardi di dollari.
Sembra incredibile che dietro una simile frenesia ci siano anche uomini pacati e sorridenti come il professor Zheng Shiling, uno dei più autorevoli architetti cinesi oltre che influente teorico della scienza urbanistica riconosciuto a livello mondiale. Membro dell’Accademia delle scienze cinesi, il professor Zheng è anche membro dell’Acadèmie d’Architecture de France e Honorary Fellow dell’American Institute of Architects. Nominato general schemer del’Expo 2010 e occupando una posizione preminente nella Shanghai Urban Planning Commission e nel Comitato per la conservazione delle aree storiche, sta nella sua testa tutta la città passata, presente e futura [1].
La descrive in un buon italiano, appreso nei tre anni, dall’86 all’89, trascorsi da visiting scholar alla Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze. Sui tovaglioli di uno Starbuck bar, schizza alcuni progetti, come quello avveniristico dell’Isola Verde di Chjongming, alla foce dello Yangtze. Terza isola cinese per estensione territoriale (1225 km quadrati), Chongming è destinata a diventare, entro il 2020, un piccolo paradiso terrestre dove gli uomini vivranno e produrranno in perfetta armonia con se stessi e la natura.
C’è un rapporto fra questi progetti e la realtà inquinata e rumorosa, vissuta quotidianamente dai quasi 10 milioni di abitanti dell’area metropolitana, oltre il martellante slogan dell’Expo 2010, Better City, Better Life? Sì e no, pare di capire dal professor Zheng. È tutta questione di recuperare il tempo perduto; il passato è stato selvaggio, dal punto di vista architettonico e sociale. Nella sua prima fase di sviluppo, dall’inizio degli anni ’90, la città è stata teatro delle scorrerie di molti speculatori armati di buone protezioni. Il segretario licenziato del Partito, probabilmente, collaborava troppo con i capitalisti per il profitto reciproco ma, anche, per guadagnare potere e prestigio. Molte le fortune che si sono costruite in poco tempo, e oggi si è capito il perché.
Il professor Zheng descrive una prima fase dello sviluppo di Shanghai in cui, per anni, il governo non ha prestato molta attenzione alla vita degli abitanti. Oltre due milioni di persone sono state costrette a lasciare il centro storico della città per finire ricollocate in una periferia disagiata. Ancora pochi anni fa, il governo ha costruito oltre 20 milioni di metri quadri di case popolari per ospitare altre 800mila famiglie. Progetto criticato da Zheng, non perché fosse contrario alla delocalizzazione (le vecchie case del centro erano sovraffollate e malsane), ma perché la nuova area non era urbanizzata: niente scuole né ospedali, e trasporti pubblici pressoché inesistenti. Ci fu forte opposizione da parte di alcuni residenti, ma resistere agli sfratti è difficile perché il suolo è pubblico e il governo può riprenderselo quando vuole in nome dell’interesse generale che è, dichiaratamente, quello di rivalutare le aree. Il torbido nasce dai meccanismi di passaggio poco trasparenti. Gli eccessi hanno portato oggi a provvedimenti di riequilibrio. Gli indennizzi per gli sfratti sono aumentati notevolmente e il governo centrale ha imposto un controllo più stretto sulla concessione del suolo pubblico.
Che la ragione stia riprendendo piede dopo il delirio iniziale appare anche da altri segni. Nel 2002, una legge ha stabilito la tutela di 12 quartieri di interesse storico nel centro della città, 27 km quadrati che sono diventati quasi intoccabili e chi vuole abitarci potrà farlo solo se in possesso di un permesso speciale. Anche in periferia e nelle campagne limitrofe sono state identificate 32 aree storiche da salvaguardare. Più in generale, spiega Zheng Shiling, si cercherà di rendere le periferie più vivibili. Per ottenerlo, i trasporti sono essenziali. Oggi Shanghai ha 123 km di rete metropolitana. Per l’Expo dovrà arrivare a 400 km, entro il 2020 a 700. Un progetto gigantesco ma, rassicura il professore, il governo ha la forza per farlo. Quanto a lui, ha particolarmente a cuore la vita culturale di Shanghai e sta elaborando progetti che porteranno alla nascita di strade e aree dedicate esclusivamente alla creazione artistica.
La Grande Trasformazione avviata negli anni ’90 con la decisione di estendere la città oltre la riva orientale dello Huangpu e creare la zona speciale di Pudong, non è ancora terminata. Ai quasi 500 milioni di m2 costruiti a partire dal 1985, si aggiungono altri 30 milioni ogni anno. Vale a dire che ogni due anni viene ad aggiungersi una estensione urbana delle dimensioni che aveva Shanghai nel 1949. Davvero difficile resistere alle tentazioni, in un mercato così bollente. Lo scandalo di Chen Liangyu, par di capire, ha solo rallentato una corsa, già in qualche modo frenata dal mercato che ha lasciato invenduti ettari di costruzioni. L’area di Pudong vedrà progetti ancor più grandiosi. La sagoma del World Financial Center, il grattacielo del grande costruttore giapponese Minoru Mori, destinato coi suoi 492 metri a essere il più alto della città, si alza giorno dopo giorno e presto la sua forma a cavatappi con una grande fessura in cima, dominerà il lungo fiume insieme alla Oriental Pearl Tower, di disarmante bruttezza, che col suo bagliore metallico e rosa shocking detiene il titolo di torre della televisione più alta (e kitch) dell’Asia. Sono intanto in piena edificazione tre nuove città satellite, Jiading, Songjiang, New Harbour, che ospiteranno tra le 500 mila e il milione di persone ciascuna e serviranno a razionalizzare il disegno urbanistico della metropoli.
Per una visione d’insieme della futura Shanghai bisogna salire al quarto piano dell’Urban Planning Exhibition center, nella piazza del Popolo, dove la città racconta se stessa. Un immenso plastico immortala ogni progetto, fino all’ultimo ponte; mentre, accomodandosi in una piccola saletta, si è sospinti a velocità vorticosa verso il 2010 da un filmato proiettato su uno schermo a 360 gradi. Shanghai vuole essere tutto: un centro finanziario di dimensioni mondiali; la città più verde (15 m2 pro capite di vegetazione nel 2010); la più pulita, biologica e sana del mondo; il paradiso del terziario e dell’alta tecnologia; il luogo dove le industrie più inquinanti del mondo (a cominciare dalla chimica e dalla siderurgica) diventeranno amiche dell’ambiente.
L’ebbrezza dura, tuttavia, solo il tempo di scendere le scale e uscire dal grande mausoleo che la città ha dedicato a se stessa. L’aria gelida e sferzante di pioggia è impregnata di fumi acri, la cima dei grattacieli scompare nello smog che la avvolge. A detta di un giornale locale, lo Shanghai Daily, solo l’1% dell’acqua in città è potabile. Sotto le tettoie del Kentucky Fried Chicken, affacciato sulla piazza del Popolo, staziona giorno e notte un gruppetto di homeless: seduti su sdruciti divani che hanno visto tempi migliori fissano la folla di passanti senza vederla; coppie di ciechi si sostengono a vicenda mentre fanno accattonaggio; madri con figli minuscoli attendono fino a tarda notte gli avventori di ristoranti e locali notturni per avere un po’ di elemosina. Viene in mente l’ombra del padre della letteratura cinese moderna, Lu Xun (1881-1936), che la notte inghiotte e il giorno cancella, mentre vaga senza sapere se è il crepuscolo o l’alba, e dice «C’è qualcosa che non mi piace, nella vostra età dell’oro. Preferisco non andarci».
Note
Su Shanghai e il suo sviluppo urbanistico Zheng Shiling ha scritto un saggio Shanghai. Transformations, the re-urbanization and Expo 2010, pubblicato in Italia sulla rivista «Territorio», fasc. 35, anno 2005, Franco Angeli.
Tratto da: Pascucci A., Talkin’ China, Roma, ManifestoLibri, 2008, pp. 93-98
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