[di Gaia Perini, 2019] Incastrata fra le due date che simbolicamente aprono e chiudono il “secolo breve” in Cina, ossia fra il 1919 del 4 Maggio (la prima manifestazione di piazza della storia moderna cinese) e il 1989 del 4 Giugno (da noi meglio noto come “fatti di Tian’anmen”), quest’ultima newsletter rispolvera due testi di Angela Pascucci particolarmente densi e pregnanti, a commento dei due anniversari. Entrambe le date proiettano infatti la loro ombra su un lasso di tempo assai più lungo di una singola giornata, consentendoci di tirare le somme su un intero ciclo della storia cinese.
Il primo testo consiste in un’intervista realizzata ormai undici anni fa, nel 2008, al direttore del centro di Cultural Studies della Shanghai University, Wang Xiaoming. Angela si trovava allora con me a Pechino per seguire un convegno dedicato al 4 Maggio ed al Movimento di Nuova Cultura[1], a cui il professor Wang partecipò insieme a numerosi altri studiosi (cinesi e non), noti nell’ambiente sinologico per le loro ricerche sulla storia del Novecento. Wang Xiaoming colse l’occasione del simposio per lanciare la rivista che da poco aveva fondato, “Refeng Xueshu”, e mentre presentava ad Angela questo suo progetto editoriale, molto esplicitamente le parlò dei limiti e delle potenzialità di una rivista critica pubblicata in Cina e scritta in cinese, finendo poi per interrogarsi sul senso stesso della professione di “intellettuale” in quest’area del globo. “Usiamo la cultura come un finestra” – diceva – “una finestra da aprire per analizzare tutto: politica, economia, società”.
Nel ripensamento della categoria di “cultura” e nella sua politicizzazione, Wang Xiaoming, così come Wang Hui, l’organizzatore del convegno, ritrovava una continuità fra il presente ed il 1919, la simbolica alba del secolo rivoluzionario. Anche se poi, come il lettore vedrà, il suo ragionamento, più che sull’inizio del secolo, verteva soprattutto sulle contraddittorie vicende degli anni ’50 e ’60 ed in particolare sull’epoca della Rivoluzione Culturale, che per Wang Xiaoming si declina al plurale, dato che in essa convergerebbero eventi di diversa natura e differenti temporalità. Lì, stando alla sua analisi, si sarebbero aperte le tragiche crepe con cui oggi non possiamo smettere di fare i conti, le quali peraltro, una volta passate al vaglio della critica, rendono forse un po’ più intelligibile il passaggio, apparentemente assurdo, dal maoismo all’era di Riforma e Apertura.
Ed al crepuscolo del secolo breve, che si chiude in Piazza Tian’anmen nel giugno del 1989, è dedicato il secondo pezzo che qui proponiamo: a differenza del primo, non si tratta di un’intervista, ma di un profondo e originale contributo di Angela, “Il massacro di ieri, la Cina di oggi”, scritto nel 2009, per commemorare il ventennale della tragedia.
Già il titolo sintetizza un concetto chiave dell’intervento, in cui si sostiene che il bagno di sangue e la negazione della “quinta modernizzazione”, ossia della democrazia, non segnarono affatto una battuta d’arresto nel processo di riforma, né tantomeno sancirono la fine del “socialismo” o del PCC, ma al contrario rilanciarono il denghismo in un senso più scopertamente e radicalmente neoliberista. Angela riprendeva le analisi che Wang Hui aveva già sviluppato ne “Il Nuovo Ordine Cinese” (edito dalla manifestolibri nel 2006) ed in particolare nel saggio “Il movimento sociale del 1989 e le radici storiche del neoliberismo cinese”, integrandole con quelle di altre autorevoli voci (sempre puntualmente citate, a dimostrazione della ricchezza dei riferimenti interni al testo).
Tian’anmen, secondo questa prospettiva critica, non costituì uno “stato di eccezione” e non rappresentò il punto di rottura o l’apice di una crisi comparabile a quella che travolse il blocco socialista – anzi: dopo una fase tutto sommato breve di assestamento, Deng potè compiere finalmente indisturbato il suo celebre viaggio al sud del 1992[2], ove fu celebrato l’inizio della “fase due” delle riforme. Affinché il neoliberismo potesse prendere piede e prosperare, furono insomma necessarie la violenza e la repressione di ogni possibile iniziativa guidata dal basso. L’ ’89 spianò la strada al ’92, e dunque per estensione alla Cina di oggi, il cui vertiginoso cambiamento ci fa sembrare remote, inverosimili, quasi aliene le immagini di quella piazza: donne e uomini che fanno un libero uso dello spazio della Tian’anmen (oggi recintata e ipersorvegliata, con checkpoints sui lati est e ovest); i dimostranti in piedi o sdraiati sul tettuccio di quegli autobus scarlancati, con la carrozzeria che sembra di latta, in uso sino agli anni ’90; od ancora, lo striscione dell’unione sindacale autogestita (vedasi foto qui sopra)...
A questo proposito, un altro punto degno di nota nel testo di Angela è la precisazione riguardo agli operai, che furono presenti in piazza esattamente quanto gli studenti, quando di solito a questi ultimi si attribuisce il protagonismo assoluto nel movimento. E’ invece utile e storicamente più accurato ricordare che a chiedere la democrazia non furono solo gli studenti e intellettuali “liberal”, poi confluiti nella cosiddetta “ziyoupai”[3], ma anche i lavoratori e l’ala sinistra critica dell’autoritarismo del partito. Potremmo dire che su quella piazza si formarono e crebbero le due fazioni rivali che diedero vita ad una dialettica politica genuina, a livello della società civile cinese, per tutti gli anni ’90 ed anche durante il primo decennio dei 2000 – ossia sin quasi alla fine dell’era di Hu Jintao e Wen Jiabao. (E forse questo dialogo e conflitto ventennale fra chi stava a destra e a sinistra del PCC fu l’unico tenue indizio di “quinta modernizzazione”, chissà).
Infine, ultimo punto che vorrei sottolineare prima di lasciare ai lettori “il piacere del testo”: la Cina descritta da Angela ormai dieci anni orsono, nel frattempo si è già radicalmente trasformata, tuttavia una costante rimane – ossia, il silenzio che avvolge sia la data, sia soprattutto il luogo. Resta l’amnesia dei giovani. E come sempre avviene nel caso dei rimossi, più l’interdizione è forte e meno può dirsi superato il trauma. Per dirla con le parole di Angela, è ancora lì, apparentemente inamovibile, “la questione politica di enorme complessità che era stata sollevata da quella piazza: che cosa si decideva e chi lo decideva”. La risposta sfuggiva allora e continua a sfuggire; sfugge anche a noi se pensiamo che il problema riguardi soltanto la Cina.
[1] Si fa qui riferimento agli anni ’10 del ‘900 cinese ed al primo tentativo di ripensamento sistematico della propria identità culturale e politica. Suoi protagonisti furono un gruppo di intellettuali indipendenti, nati fra la fine dell’ ‘800 e l’inizio del ‘900, che furono testimoni della fine dell’impero (collassato nel 1911), ma anche della crisi della prima repubblica. La creazione della rivista “Gioventù Nuova” nel 1915 rappresenta l’avvio di questa fondamentale esperienza storica, mentre il 4 Maggio 1919 ne segna il culmine.
[2] Con il tour di Deng Xiaoping al sud si sancisce la vittoria di una nuova e più aggressiva fase delle riforme, ben rappresentata dalla città di Shenzhen, porto offshore e punta di diamante della nuova Cina “fabbrica del mondo”. Durante il suo tour, Deng rilascerà dichiarazioni quali “se il capitalismo ha qualcosa di buono, allora il socialismo deve riprenderlo e usarlo”, auspicando che cento Hong Kong sbocciassero, finalmente libere dai lacci e lacciuoli della vecchia economia di piano.
[3] Alla lettera, appunto, “ala liberal”.
di Gaia Perini, maggio 2019
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