Intervista a Ivan Franceschini: "Come parlare di lavoro in Cina? Cercando un ponte fra ieri e oggi, fra le inchieste di Angela Pascucci e le più originali ricerche sul tema, portate avanti da Ivan Franceschini e dal gruppo di Made in China", di Gaia Perini e Federico Picerni.
Lavoro e attivismo negli ultimi 15 anni
Gaia Perini (da qui in poi, GP): Grazie mille, Ivan, per averci concesso questa intervista, che ci permette di fare il punto su diversi aspetti del lavoro di Angela che tu conosci molto meglio di noi. Le inchieste di Angela, dal nostro punto di vista, vanno ben oltre l’attualità stretta e la contingenza e perciò, per recuperarne la durata, la visione storica che racchiudono, ci sembra utile metterle a confronto ora con le ricerche più contemporanee, quali quelle che tu porti avanti tramite Made in China, insieme a un nutrito gruppo di intellettuali e attivisti, riguardo alle condizioni dei lavoratori cinesi ed alle loro lotte. La prima domanda che io e Federico vorremmo rivolgerti riguarda appunto la visione storica che potremmo trarre dall’evoluzione del movimento operaio in Cina – se di movimento possiamo parlare – negli ultimi quindici anni, quindi dall’era Hu Jintao-Wen Jiabao [2003-2013] ad oggi, sotto Xi Jinping [2013-?]. Quali secondo te sono stati gli snodi, le tappe fondamentali, di questo percorso?
Ivan Franceschini (da qui in poi, IF): Intanto va detto che negli ultimi due decenni il dibattito internazionale sulla Cina ha sempre incluso una significativa componente sui temi del lavoro, dello sfruttamento, delle condizioni in fabbrica, della sicurezza e della salute dei lavoratori. Un ideale punto di avvio del nostro ragionamento potrebbe essere rappresentato dall’incendio in un fornitore cinese della Chicco, avvenuto nel 1993 [1]: da lì prese forma, all’estero e non solo, una sensibilità critica sui temi del lavoro in Cina che perdura sino a oggi, direi.
Per quanto riguarda il decennio del governo di Hu Jintao-Wen Jiabao, si è assistito ad una decisa apertura delle autorità nei confronti dei lavoratori, questo non perché i vertici si fossero improvvisamente scoperti operaisti, ma perché in quel momento alla crescita economica erano necessarie politiche più morbide, quelle appunto promosse sotto l’egida della “società armoniosa” [hexie shehui 和谐社会, NdC] e che sfociarono nella riforma del lavoro. L’idea della “società armoniosa” in genere viene interpretata come mera propaganda, una formula ridicola, di cui non vale la pena occuparsi; invero, per quanto l’elemento puramente ideologico e di propaganda sia innegabile, il cambiamento nel discorso politico innescato da Hu e Wen incise realmente sulle relazioni industriali ed ebbe un impatto concreto sulla vita dei lavoratori. Da parte governativa, nel giro di pochi anni, le autorità cinesi adottarono una serie di riforme sul lavoro, culminate nel 2007 e 2008 con l’approvazione della Legge sui contratti di lavoro [laodong hetong fa 劳动合同法], la Legge sulla promozione dell’impiego ed infine Legge sulla mediazione e l’arbritrato nelle dispute sul lavoro, a cui seguì nel 2011 una ulteriore manovra sulla sicurezza sociale. Tutto questo si tradusse in una crescita imponente nel numero delle dispute sul lavoro risolte per canali ufficiali, un dato che generalmente viene interpretato come un segnale di crescente attivismo tra i lavoratori. Tuttavia, questa lettura è semplicistica: se da un lato questo aumento senz’altro attesta un affinamento della coscienza operaia in materia di diritti, testimoniando un rinnovato protagonismo e attivismo da parte dei lavoratori, dall’altro dimostra una crescente fiducia dei lavoratori nei confronti dell’ufficialità. Purtroppo questa fiducia non sempre è stata ripagata – anzi – e infatti alla fine del decennio scorso la Cina fu scossa da quella che è stata definita un’“ondata” di scioperi e proteste, su cui non abbiamo numeri precisi, ma che fu oggetto di discussione non solo nei circoli di attivisti, ma pure sui media nazionali cinesi.
L’“ondata” di scioperi del 2010 non rappresentò una vera novità dal punto di vista pratico – la classe operaia cinese ha una lunga storia di attivismo e mobilitazioni – ma senz’altro segnò una svolta nel modo in cui si parlava della questione del lavoro in Cina a livello tanto domestico quanto internazionale. A seguito della crisi finanziaria globale, difatti, la percezione dell’attivismo operaio cinese cambiò parecchio, nel senso che se dall’incendio della Chicco si era creato un immaginario dell’operaio cinese visto come vittima inerme, come puro elemento passivo dello sviluppo della Cina, nel 2010 prese piede un discorso che invece contemplava il ruolo attivo della classe operaia, che finalmente assurgeva al ruolo di soggetto politico. Particularmente importante nel fomentare questa nuova narrazione fu lo sciopero della Honda, in cui gli operai incrociarono le braccia per richiedere un consistente aumento dello stipendio, anche al di là dei minimi previsti. Questa, ripeto, fu una svolta nella narrazione più che nella situazione oggettiva dell’attivismo allora esistente. Purtroppo, come dicevo, mancano stime precise: ai media cinesi raramente viene permesso di coprire le proteste operaie, non esistono statistiche ufficiali e i numeri sono sempre calcolati in modo approssimativo... –
GP: Ma nemmeno tramite il China Labour Bulletin si possono raccogliere delle statistiche certe?
IF: La mappa degli scioperi del China Labour Bulletin è sicuramente una risorsa fondamentale per seguire le tendenze nell’attivismo operaio in Cina. Eppure non bisogna dimenticare che il China Labour Bulletin stesso è il primo a dichiarare le lacune nella raccolta dei propri dati; il gruppo lavora costantemente alla mappatura degli scioperi e degli episodi di dissenso tracciando segnalazioni su media locali e nuovi media, ma mette in guardia rispetto all’utilizzo di questi dati in chiave diacronica, in quanto i sistemi di calcolo da loro adottati sono cambiati negli anni. Ora come ora, non esistono fonti assolutamente precise e inoppugnabili sul numero degli scioperi in Cina. Certo, abbiamo un’idea dei trend generali, ma alla fine dobbiamo ammettere che non abbiamo i numeri. A parte il China Labour Bulletin, c’era una coppia di attivisti, Lu Yuyu e la sua compagna Li Tingyu, che monitoravano costantemente i social media cinesi alla ricerca di casi di scioperi e proteste, ma sono stati entrambi arrestati nel 2016. Lei è stata rilasciata quasi subito, ma nell’agosto del 2017 lui è stato condannato a quattro anni di carcere. In assenza di dati affidabili, con il Partito-stato che custodisce i propri segreti adottando misure così severe, la questione primaria resta quella della percezione. Lo sciopero della Honda del 2010, ove gli operai chiesero salari molto più alti di quanto non ricevevano e rivendicarono il diritto a eleggere i propri rappresentanti sindacali, ebbe un impatto enorme in questo senso: è chiaro che fece notizia, perché fu ed è un’eccezione. Insomma, l’era di Hu e Wen, sia dal basso che dall’alto fu un periodo di estremo dinamismo, soprattutto se comparata all’oggi: io ero in Cina in quegli anni e sul momento mai avrei detto che avrei finito per considerarla quasi un’età dell’oro. (GP: pure io che ero lì condivido in pieno questa tua percezione...) IF: Fu un periodo in cui tutti si dedicavano ad una qualche forma di sperimentazione: i vertici stavano sperimentando, i sindacalisti di base stavano sperimentando e così le ONG del lavoro... Con l’ascesa al potere di Xi Jinping nel 2013 il processo si bloccò. Non avvenne dalla sera alla mattina, ma nemmeno in modo troppo graduale: nel giro di un paio di anni semplicemente si pose fine ad ogni esperimento, la riforma del lavoro fu congelata, le proposte di legge da allora dormono nei cassetti e la direzione generale della politica è divenuta decisamente opaca. Ci sono problemi enormi e urgentissimi a cui non viene data una risposta chiara...
GP: Scusami se ti interrompo un’altra volta, ma qui potremmo trovare un collegamento con il lavoro di Angela: dalle sue inchieste infatti era emerso che pure sotto la società armoniosa c’era una applicazione poco chiara delle misure, pur virtuose, che erano state approvate con Hu-Wen. Grazie agli aggiustamenti degli anni 2007-8 la legge sul lavoro divenne quasi più avanzata della nostra – scriveva Angela – ma poi non veniva applicata per via delle sue maglie troppo larghe.
IF: Certo, l’implementazione mancata o parziale delle leggi e dei regolamenti esistenti è un aspetto importante. In aggiunta, il mondo del lavoro, in Cina come altrove, sta evolvendo con estrema rapidità. Basti pensare alle nuove forme di lavoro atipico e ai rapporti di impiego nella platform economy, che per ora in Cina cadono in un limbo giuridico. Lo scenario sta mutando a ritmi velocissimi e le leggi esistenti sono sia vaghe, sia insufficienti rispetto ai nuovi bisogni di tutela dei lavoratori. Paradossalmente, l’unica voce che si è levata per richiedere una modifica del quadro legale è venuta dal ministro dell’economia e delle finanze, il quale nel 2016 si lamentò dell’eccessiva restrittività della legge sui contratti e chiese quindi maggior flessibilità, per venire incontro alle esigenze del mercato!
L’ondata repressiva
IF: Tornando all’era Hu-Wen, esistevano allora due tipologie di attivismo. Un primo tipo era legato all’iniziativa dei lavoratori stessi, cui le autorità in genere rispondevano con concessioni selettive: i leader delle proteste subivano arresti e intimidazioni, mentre gli altri lavoratori ricevevano concessioni economiche. Un secondo tipo era rappresentato dalle ONG del lavoro. Queste organizzazioni sono apparse in Cina a metà degli anni Novanta e fino ai primi anni di questo decennio si limitavano ad organizzare attività culturali, a disseminare la conoscenza del diritto del lavoro tra i lavoratori e a fornire consulenze legali. Solo negli ultimi anni dell’era di Hu e Wen alcune di queste organizzazioni hanno iniziato a promuovere un’idea molto militante di contrattazione collettiva. Ciò significa che le ONG non si limitavano più a offrire semplice supporto legale ai lavoratori, ma svolgevano un ruolo attivo in dispute collettive, organizzando i lavoratori e insegnando loro come avanzare richieste che andavano ben oltre il minimo legale.
Sebbene fossero ciclicamente oggetto di attacchi, fino al 2015 le ONG ebbero mano abbastanza libera: in quell’anno, sotto la leadership di Xi Jinping, invece iniziarono gli arresti a catena degli attivisti del lavoro, i quali non solo subirono il carcere, ma vennero pure screditati, umiliati pubblicamente e demoliti tramite campagne sui media ufficiali. Era evidentemente necessario porre fine alle esperienze degli anni precedenti e queste misure furono sicuramente il frutto di scelte del governo centrale – non si spiegherebbe il coinvolgimento di media nazionali quali la televisione centrale o il Quotidiano del Popolo. Dal 2015 l’attivismo che passava per le ONG è entrato in forte crisi, mentre resta l’attivismo auto-organizzato dai lavoratori.
GP: Scusami per l’interruzione, ma credo che sarebbe utile fare una precisazione rispetto all’entità di cui stiamo parlando, ossia le ONG del lavoro. In Cina le ONG, almeno quelle che mirano ad avere uno statuto ufficiale, dovrebbero registrarsi presso le sedi del governo (pur rimanendo “non governative”), mentre tu forse intendi le organizzazioni non ufficiali...
IF: Io intendo piccole, piccolissime organizzazioni non accreditate presso le autorità, con 4-5 dipendenti, talvolta pure meno, spesso stanziate nelle aree industriali, prive di una registrazione o al massimo registrate come aziende. Queste sono le realtà che con Xi sono entrate in una crisi profonda.
Quindi, per chiudere, in generale sotto Xi Jinping si è assistito a un deciso aumento della repressione, della coercizione, in contrasto con l’era precendente dell’“armonia”, dove il consenso, e non l’uso della forza, era lo strumento privilegiato dalle autorità. A questo proposito, potremmo rifarci al concetto gramsciano di egemonia, utile a spiegare la dialettica fra forza e consenso. Non è che sotto Hu-Wen si ignorassero i metodi coercitivi: gli operai e gli attivisti venivano arrestati o intimiditi, ma c’era comunque un equilibrio fra i due momenti, fra repressione e apertura. Una parvenza di “armonia” veniva perseguita attraverso le leggi, i regolamenti, la mediazione almeno parziale, mentre ora tutta la strategia del consenso è stata messa decisamente in secondo piano. Adesso prevale il ricorso alla violenza, tanto che la paura è un sentimento dominante tra i pochi attivisti rimasti in circolazione. La paura è il sentimento dominante; gli attivisti sono diminuiti numericamente, i loro margini d’azione si sono ridotti drasticamente, si può dire che la Cina si sia chiusa su se stessa. Dal punto di vista delle proteste, l’episodio più recente e significativo è quello della Jasic, dove i lavoratori si sono mobilitati, sono stati arrestati e a quel punto sono intervenuti gli studenti da Pechino, una cosa che non si era mai vista prima, non su questa scala almeno. Tutta questa dinamica è stata possibile perché si sono creati dei vuoti, impensabili sino a poco fa.
Che cosa sia successo esattamente, negli anni del passaggio da Hu-Wen a Xi, o poco prima della fine del mandato di Hu Jintao, perché si passasse da una dialettica aperta all’assoluta distopia di oggi, è difficile dirlo; di sicuro si creò allora un forte senso di insicurezza, come se tutte le contraddizioni fossero lì lì per esplodere e fosse dunque opportuno ricorrere al pugno di ferro per prevenire una discesa nel caos, simboleggiato dagli incidenti di massa e dalla corruzione dilagante interna al Partito.
Federico Picerni (da qui in poi, FP): Però è interessante che ci sia stato questo cambiamento, che potrebbe essere stato determinato da un cambio dei rapporti di forza all’interno del Partito, anche rispetto alla gestione delle tensioni sociali, o può essere legato al rallentamento della crescita, che ha condotto ad uno stop di tutte le misure di welfare sino a prima considerate necessarie...
IF: Sicuramente i due fattori che citi hanno avuto un peso nel processo; il rallentamento della crescita è stato decisivo, su questo non c’è dubbio. Non ci è però dato di osservare da dentro che cosa è avvenuto ai vertici e possiamo solo avanzare delle ipotesi. Quello che comunque è chiaro è che la svolta è giunta imprevista e nessuno mai si sarebbe aspettato che saremmo arrivati ad un tale accentramento, ad una condizione di stabilità monolitica che tuttavia cela una profonda instabilità, in cui tutto in realtà è possibile. Regna l’imprevedibilità.
FP: Queste tue ultime osservazioni si collegano ad un’altra domanda che vorrei porti e che è strettamente legata ai testi di Angela Pascucci che abbiamo ripreso di recente, ossia: come si è trasformata le dinamica fra i vari attori? Un punto che emerge sempre dalle inchieste di Angela riguardanti il tema del lavoro, rispetto agli anni 2006-12, è l’esistenza di una dialettica costante e flessibile fra il governo centrale, i governi locali, il sindacato ufficiale, i lavoratori e un insieme composito di figure mediatrici, che vanno dalle ONG di cui ci parlavi, agli avvocati politicamente schierati sino agli “intellettuali critici”. Che fine hanno fatto, oggi, questi mediatori?
IF: A parte le ONG sotto attacco a partire dal 2015, i primi a sparire furono gli “avvocati scalzi”. Gli “avvocati scalzi” si trovarono privati dei loro spazi di intervento sin dalla fine del mandato di Hu-Wen, già intorno al 2012. L’idea che gradualmente prese piede è che solo lo Stato e attori commerciali sottoposti a stretta regolamentazione possano operare come mediatori tra datori di lavoro e lavoratori: il sindacato ufficiale, gli uffici per le petizioni, gli avvocati privati e gli uffici del lavoro. Al contrario, gli “avvocati scalzi” e gli attivisti sono diventati oggetto di una repressione sempre più severa. Quanto ai margini d’azione degli accademici, anche lì c’è stato un giro di vite: l’ultima mobilitazione degna di nota risale all’inverno del 2017, con gli sfratti di massa a Pechino, quando i migranti delle periferie vennero bollati come low-end population [diduan renkou 低端人口] e scacciati a forza dalle loro abitazioni. Lì intervennero alcune ONG, con il supporto di vari professori universitari, ma a confronto delle mobilitazioni e campagne del decennio precedente, possiamo dire che non è rimasto quasi nulla.
Anche la rete, su cui negli anni fra 2008 e il 2010 era stato proiettato un immaginario cyberutopico dell’internet come strumento di sovvertimento sociale (si parlava allora di “rivoluzione dei gelsomini”), pare aver perso il suo potenziale emancipatorio; a differenza di dieci anni fa, oggi infatti è chiaro che le tecnologie avvantaggiano assai di più chi ha il potere rispetto a chi non ce l’ha e sono immensamente funzionali al controllo ed alla manipolazione del pubblico. Questo non succede solo in Cina, ma diciamo che in Cina questa tendenza è portata all’estremo grazie all’estrema abilità delle autorità cinesi di utilizzare ogni innovazione tecnologica a proprio vantaggio.
Rapporti di produzione e forme del lavoro in evoluzione
GP: Il quadro che ci offri è precisissimo, grazie; ora però tornerei al tuo spunto precendente sulle nuove forme di lavoro atipico, che pare sfuggire alle nostre categorie interpretative classiche e che in Cina trova la sua perfetta incarnazione nella figura dei “kuaidi” [快递, corrieri o riders], che hanno completamente trasformato il panorama urbano di Beijing, Shanghai, Chongqing, ecc.
IF: Certo, il “kuaidi” è una figura centrale nella platform economy, al pari degli autisti di “didi” [滴滴打车, l’uber cinese] e del personale coinvolto in tanti altri servizi che in Cina spuntano come funghi. Si è poi diffuso molto negli ultimi anni il lavoro interinale, che ha preso piede anche nelle aziende di stato, preferendo queste ultime assumere dipendenti precari, a cui non sono costrette ad offrire le garanzie dovute a chi ha un contratto a tempo indeterminato. Ciò ha inferto un ulteriore colpo all’“unità di lavoro”, alla “danwei” [单位] – o quello che ne rimane. Oggi la “danwei” è difatti una struttura residuale, dominio di una minoranza privilegiata di lavoratori e impiegati, anche se le poche unità di lavoro tuttora esistenti possono essere definite delle super-“danwei”: pensiamo ai poli universitari, alle imprese statali che spesso detengono un monopolio nelle telecomunicazioni o nella fornitura di energia. Sono super-“danwei” perché offrono benefits che per noi sono inimmaginabili ormai, benché d’altro canto per essere sostenibili sfruttino una forza lavoro di seconda classe – non necessariamente migranti, ma certo interinali, privi di un posto stabile. Al proposito, vale la pena ricordare che protagonisti della mobilitazione della Honda nel 2010 furono proprio gli interinali...
GP: Visto che citi la Honda, creerei un altro collegamento con i testi di Angela, che nel 2011, a un anno dai fatti, intervistò Chang Kai [2], il professore della Scuola del lavoro e delle risorse umane dell’Università del Popolo, nonché consulente governativo, che venne chiamato dagli operai della Honda per sedersi al tavolo delle trattative al posto del delegato ufficiale del sindacato. Chang Kai ci raccontò con dovizia di particolari la strategia operaia ed Angela rimase assai colpita dalla differenza fra il caso della Honda, una fabbrica in cui gli operai avevano dimostrato un’incredibile capacità organizzativa, e dove ancora funzionavano tecniche classiche, come lo sciopero a gatto selvaggio, e la Foxconn, teatro di suicidi a catena di giovanissime maestranze totalmente isolate, data la struttura dell’impianto. Tu cosa commenteresti in merito?
IF: Dipende dall’organizzazione della produzione: la Honda è composta da una serie di fabbriche dipendenti l’una dall’altra, per cui bloccandone una si blocca l’intera catena produttiva, mentre nel caso della Foxconn e ancor più nel caso della platform economy, l’isolamento e l’atomizzazione sono assoluti. L’autista di “didi”, per dire, non ha dei colleghi con cui interagire, non ha una sede di riferimento, tutto passa attraverso l’app e il rapporto di lavoro è quanto mai spersonalizzante e individualistico.
Poi, un’altra forma di lavoro atipico di cui dobbiamo tener conto è quella che vede lo sfruttamento di studenti, i quali costituiscono una manodopera ideale, data la loro inesperienza e fragilità, per grosse aziende come la Foxconn, che prendono accordi con i governi locali per poter assumere i giovani degli istituti professionali. Gli studenti finiscono così per fare questi stages, che in genere non hanno nulla a che fare con il diploma che poi prenderanno: vengono sottoposti alle stesse mansioni e allo stesso carico di lavoro dei dipendenti ordinari, spesso essendo obbligati a fare degli straordinari (che però a loro vengono retribuiti meno) o a lavorare di notte.
In breve, queste nuove forme di lavoro rendono chi le accetta particolarmente fragile e incapace di porre la minima resistenza allo sfruttamento. Oltre allo stato di crisi in cui l’attivismo sul lavoro versa a causa della repressione governativa, pure questa organizzazione ultra-atomizzata del lavoro rende più difficile l’intervento delle ONG o di altre realtà esterne. In una situazione del genere, forse l’unica chance è che i lavoratori si autorganizzino, ma è molto difficile, date le loro condizioni di partenza.
Un’alleanza operai-studenti?
FP: Colgo al balzo questa tua descrizione della realtà studentesca per porti una domanda ad hoc, sull’annosa questione dell’alleanza fra operai e studenti. Citerei qui un’affermazione di Angela, volutamente provocatoria e forse riduttiva, ma anche efficace, che diceva: in Cina metà dei giovani sono migranti, mentre l’altra metà sono studenti. Invero i due gruppi non sono neppure così nettamente separati e si crea un amalgama, in cui diviene possibile che gli studenti sviluppino una sensibilità critica rispetto ai problemi del lavoro...
IF: Difatti non sono divisi per compartimenti stagni: molti studenti sono figli di migranti, oppure vi sono studenti che dopo la laurea trovano lavori tradizionalmente svolti dai migranti. Pensiamo anche al gap salariale: oggi un migrante si trova a competere con gli studenti. Sono due mondi sempre più vicini. Non c’è più l’idea dello studio come formazione di un’élite e chi esce da un’università prestigiosa non è automaticamente destinato a una carriera prestigiosa.
GP: Io e Angela intervistammo Lian Si sulla “tribù delle formiche” [3]. Andai anche a Tangjialing, dove vi era la più cospicua concentrazione di “formiche”, prima che lo abbattessero.
IF: In questo caso, appunto, studenti e migranti si trovano persino in competizione: le “formiche” spesso si trovano nella condizione di dover competere con i lavoratori migranti nella ricerca del lavoro. Quanto agli studenti che si occupano di lavoratori, o all’alleanza operai-studenti di cui si parla tanto in questi giorni in riferimento al caso Jasic, avrei due osservazioni. La prima è che ci sono sempre stati studenti che si sono interessati alla situazione dei lavoratori in Cina, solo che lo facevano in maniera completamente diversa, meno ideologica e, per esempio, operavano all’interno delle ONG del lavoro. Fra gli attivisti delle ONG del lavoro si trovava chi aveva un background operaio – soprattutto lavoratori che decidevano di impegnarsi dopo aver avuto problemi ed essersi informati sulla legge sul lavoro – e studenti. Si trattava prevalentemente di studenti di legge, di lavoro sociale o anche di materie umanistiche, che in genere sentivano la necessità di fare qualcosa di più per la società.
GP: Tra l’altro Angela andò con me a intervistare un gruppo interessantissimo che faceva capo ad un sito internet chiamato Chengbiancun, composto da studenti laureati in legge. Oggi non esiste più.
IF: Ho fatto decine di interviste per capire le motivazioni di questi studenti nell’impegnarsi per i lavoratori. In genere, mi dicevano di voler fare qualcosa per la società, desideravano sentirsi utili; per quanto espressione di ideali ammirevoli, si trattava di motivazioni molto individualistiche, ben lontane dall’ideale maoista della lotta di classe e della rivoluzione. Era un discorso più radicato nell’interesse pubblico e, di conseguenza, anche piuttosto legato all’ufficialità. A volte questi ragazzi erano spinti da motivi più personali, legati alla loro situazione famigliare: non era raro che avessero gli zii o persino i genitori migranti. Inoltre non si trattava di un gruppo organizzato, ma di studenti singoli che decidevano di dedicare parte del loro tempo a lavorare per le ONG del lavoro e aiutare i lavoratori, ma era pratica comune, tanto che molte ONG avevano uno staff composto in buona parte da studenti. A differenza dei lavoratori-attivisti, questi giovani non si fermavano a lungo, a volte per qualche anno, ma più spesso solo per qualche mese, subendo notevoli pressioni da parte della famiglia, preoccupata per la loro scelta di vita e per il loro futuro. Questa collaborazione tra studenti-attivisti e lavoratori-attivisti nell’ambito delle ONG del lavoro potrebbe essere considerata alla stregua di un’ “alleanza” fra studenti e lavoratori, anche se la convivenza non è mai stata facile, dal momento che studenti e lavoratori usano linguaggi completamente diversi.
La seconda osservazione, tornando al caso Jasic, è che quest’ultima mobilitazione in verità ha riguardato un numero assai ridotto di studenti. Ciò che è stato significativo in questo caso è il fatto che gli studenti fossero organizzati, provenissero in larga parte da università d’elite, e adottassero il linguaggio maoista della lotta di classe. Adottando una repressione del tutto sproporzionata rispetto alle forze in gioco, il governo cinese ha ingigantito la questione, rendendola un caso politico di dimensioni globali. Decine di persone sono state arrestate o fatte sparire, e ciò è sconvolgente, ma temo che pochi in Cina siano consapevoli di ciò che sta succedendo, anche perché non c’è alcun modo di far passare il messaggio, quindi non descriverei quanto è accaduto come una “rivoluzione” nell’attivismo operaio e studentesco nel Paese.
GP: Un aspetto che mi pare rilevante è il trattamento riservato da uno Stato governato dal partito comunista a una gioventù che si proclama marxista.
IF: Questo mette indubbiamente in luce i paradossi della Cina. Si tratta anche di capire quali fossero le priorità di questi studenti. Se il loro obiettivo era risolvere lo specifico problema dei lavoratori della Jasic e aiutarli a ottenere ciò che stavano chiedendo, non si può dire che abbiano ottenuto il risultato sperato, anzi. Se invece il punto era esporre il fallimento o l’ipocrisia del Partito-stato in Cina oggi, grazie soprattutto all’ingenuità dell’apparato di pubblica sicurezza, hanno avuto un successo che non avrebbero mai potuto sperare: tutto il mondo parla di loro! Ricapitolando, quindi, se il loro obiettivo era specifico e immediato hanno fallito, se invece avevano un obiettivo politico, complimenti, ci sono riusciti completamente, pagando però un prezzo enorme. In ogni caso, indipendentemente da ogni valutazione politica, questi ragazzi e ragazze meritano tutta la nostra solidarietà e ammirazione: in un contesto sociale e politico come quello della Cina di oggi, quanti oserebbero mettere a repentaglio il proprio futuro per un’ideale totalmente disinteressato?
Storie di “attaccabrighe” dell’attivismo operaio
GP: Abbiamo tempo per un’altra domanda e per le possibili suggestioni che ci offrirà. Nella nostra newsletter a tema operaio [4] abbiamo parlato degli incontri avuti da Angela con vari attivisti del “vecchio corso”, appunto, quindi professori universitari, studenti, operai autorganizzati che si alleavano con tecnici della rete, e attivisti clandestini. Nel farlo abbiamo voluto dare un taglio soggettivo nel raccontare i dietro le quinte, penso ad esempio al gruppo delle donne operaie Dagongmei zhi jia [打工妹之家], che non ci volevano concedere l’intervista perché si vergognavano del loro piccolo ufficio.
IF: Quello fu il primo gruppo organizzato delle operaie, aveva anche una rivista.
GP: Intervistammo anche una rete di operai gestita da un attivista allora in clandestinità, il cui pseudonimo è Yan Yuanzhang e ho visto che ora firma petizioni a favore degli studenti marxisti. Ai tempi ci diede un appuntamento in camuffa, che fu anche abbastanza divertente, tramite un professore di Qinghua che prestava l’appartamento affinché io e Angela potessimo intervistare questo personaggio. Nella newsletter abbiamo quindi adottato uno sguardo soggettivo, sì, ma che ci consentisse di cogliere anche lo “spirito dei tempi”. Vorremmo quindi chiederti se hai un aneddoto, o più aneddoti, significativi.
IF: Si incontrano sempre persone con storie molto interessanti alle spalle, da quello che ha passato anni nel campo di rieducazione attraverso il lavoro, per poi uscire e diventare un attivista… Probabilmente quello che mi ha colpito di più è l’ “Attaccabrighe”, un personaggio che compare nel segmento di chiusura di Dreamwork China, un documentario che ho girato nel 2010 con Tommaso Facchin. Era un semplice lavoratore migrante, ben lungi dall’essere un attivista. L’ho conosciuto nel 2009 a un training organizzato a Shenzhen da una ONG sulla Legge sui contratti di lavoro, al quale avevano preso parte avvocati e studenti. Facile da notare in mezzo a un pubblico del genere, c’era un lavoratore magrolino, vestito in maniera dimessa, intento a discutere animatamente con alcuni avvocati riguardo l’interpretazione di un articolo della legge sui contratti di lavoro. Alla fine, aveva ragione lui! E aveva un livello di istruzione che, al massimo, arrivava alla scuola media, se non addirittura alla scuola elementare. Era venuto a sapere della nuova Legge leggendo i giornali e guardando la tv. Dopo averla studiata da solo e aver partecipato a qualche incontro organizzato da ONG, aveva cominciato a denunciare i suoi datori di lavoro, uno dopo l’altro. Cambiava lavoro, arrivava in un’altra fabbrica, scopriva che qualcosa non andava bene e presentava immediatamente una denuncia. Ha intentato decine di cause e ne ha anche vinte diverse, benché ci tenesse sempre a precisare che non aveva guadagnato niente, ma solo ottenuto quello che gli spettava di diritto. Era una persona incredibile: il suo lavoro era far causa ai datori di lavoro! Nel film racconta che una volta un giudice gli fece i complimenti per il suo comportamento, ma lui replicò: “Non mi devi ringraziare. Sarei felice se le leggi venissero rispettate senza il bisogno di persone come me. Non dovrei essere io a ricordare al governo che deve fare il proprio lavoro.” Aveva anche padronanza del linguaggio marxista, sfoggiava termini come “accumulazione primitiva” e così via.
Ricordo poi anche un altro attivista, che lavorava in una delle poche ONG del lavoro attive nella Cina orientale – le ONG del lavoro in genere sono localizzate a Pechino o nel Guangdong, i luoghi dove hanno maggiore accesso ai fondi grazie, rispettivamente, alla presenza delle ambasciate e alla prossimità a Hong Kong. Era anch’egli un semplice migrante, con un livello di istruzione molto basso. Aveva dovuto far causa al suo datore perché, dopo un incidente sul lavoro in cui era rimasto ustionato a un braccio, era stato licenziato senza alcun risarcimento. Era andata per le lunghe, come sempre, ma alla fine aveva ottenuto quanto dovuto, solo che, anziché tenersi i soldi, li aveva spesi tutti per creare questa ONG. Questa è una storia ricorrente: tante ONG sono state create da lavoratori con risarcimenti ottenuti per le cause relative al lavoro. È stata una delle persone migliori che ho conosciute, anche se ora non può più portare avanti il lavoro che stava facendo, perché la sua organizzazione è stata chiusa anni fa dalle autorità locali.
GP: Mi ricorda un po’ la storia di uno dei fondatori della comunità di Picun[5]: prima fonda un gruppo rock, poi con i soldi del disco venduto “apre” Picun, passando da operaio addetto al trasporto dei boccioni di acqua a capo di questa comunità. A casa sua ha una libreria su quattro pareti piena di libri di marxismo e dintorni.
FP: In effetti oggi, in mancanza della forma organizzativa che era garantita dal Partito o dal sindacato, queste storie individuali diventano ancora più rilevanti e centrali, anche per come gli attivisti si ingegnano per aprire le ONG.
Dinamiche intergenerazionali e prospettive
GP: Sarai stanchissimo, ma vorremmo lasciarci con un’ultima domanda, tutt’altro che facile. Secondo te è in atto anche una trasformazione interna del soggetto operaio migrante? Al di là che lo si chiami mingong [民工; contadini operai] o xin gongren [新工人; nuovi operai], ci interessa capire se c’è una trasformazione nel loro movimento dalla campagna alla città. Una volta si muovevano molto per clan, c’era spesso il parente già in città che teneva informati quelli in campagna sulle opportunità di lavoro, e quindi chi migrava non era completamente solo. I lavoratori migranti di oggi invece sembrano molto più atomizzati.
IF: È una domanda difficile. Le dinamiche stanno sicuramente cambiando e dal 2003 si parla di “carestia del lavoro”. Negli ultimi anni la situazione economica cinese è mutata enormemente, si è assistito allo sviluppo delle aree centrali e occidentali del Paese e ciò fa sì che vi siano sempre meno incentivi affinché i lavoratori lascino le proprie case, i propri villaggi, le proprie contee per spostarsi verso le aree costiere, dove i salari ormai non sono molto più alti. Dati alla mano, il numero di migranti che rimangono vicini al proprio luogo di origine è in continuo aumento, a fronte di un calo delle migrazioni interprovinciali, a lunga percorrenza.
GP: Prima però c’erano anche dei punti dove era possibile aggregarsi e fare comunità. La dispersione di oggi è dovuta anche alla dispersione dello sviluppo.
IF: Esattamente. Sarà interessante vedere quali saranno i cambiamenti relativi all’attivismo, al senso di appartenenza e all’identità. Su quest’ultimo punto, quello dell’identità, il dibattito si concentra attualmente sul fattore generazionale: si tende a pensare che i nuovi migranti siano diversi, giovani, maggiormente istruiti e non si sentano mingong. Questo in realtà è piuttosto comune e alcuni accademici cominciano a parlare di una nuova identità operaia costruita attorno all’idea del gongyou [工友].
GP: Oppure xin gongren.
IF: Quello è un termine artificioso, costruito ad arte da alcuni accademici, ma non mi risulta che i lavoratori lo usino molto. Il dibattito corrente si concentra soprattutto sui cambiamenti generazionali: prevale l’idea secondo la quale i nuovi migranti avrebbero un’idea di sé completamente diversa da quella delle vecchie generazioni, non si considererebbero “migranti” ma neppure contadini e quindi sarebbero alienati sia dalla città che dalla campagna. Tuttavia questa spaccatura generazionale è stata molto semplificata o esagerata nell’ultimo decennio, anche perché stata associata a un modello ideale del “nuovo migrante” – il “xin gongren” – che viene presentato come più informato grazie ai nuovi media, più attivo sul posto di lavoro, più insoddisfatto e più “choosy” nelle proprie scelte lavorative. Il giovane migrante, in base a queste rappresentazioni, vorrebbe divertirsi e avere più soldi da spendere. È un’idealizzazione eccessiva, ma anche umiliante per i lavoratori di vecchia generazione, che per converso vengono descritti come poco più che degli imbecilli, disposti ad accettare tutto senza fiatare.
GP: L’attivista clandestino che citavo prima, invece, diceva che i pensionati sono fondamentali nella trasmissione dei valori e anche dei metodi di lotta in fabbrica.
IF: Certo, vengono dall’epoca maoista e hanno un bagaglio di esperienze e discorsi diversi. Se parliamo dei migranti, però, la distinzione chiave in teoria – almeno secondo i teorici della rottura generazionale tra i migranti della nuova e vecchia generazione – dovrebbe essere quella tra i nati prima e dopo il 1980. In realtà, parlando con gli attivisti del lavoro ci si rende conto che si tratta di persone oltre la quarantina. Inoltre, gli scioperi degli ultimi anni sono stati spesso lanciati da lavoratori vicini alla pensione, o che hanno maturato diversi anni di anzianità in fabbrica. Tranne alcune eccezioni importanti, gli scioperi che negli ultimi anni hanno ottenuto maggiore visibilità hano riguardato questioni di sicurezza sociale o rilocazioni delle fabbriche, dove protagonisti sono stati i lavoratori maturi con anni di esperienza alle spalle. La trasformazione dell’identità non va semplificata, richiede un’analisi accurata, senza lenti ideologiche. Gran parte dell’accademia internazionale si è allineata acriticamente su questo discorso, perché è una narrazione facile da “vendere”.
GP: E sopperisce alla mancanza di un’analisi di classe.
IF: Le due cose spesso si sovrappongono, perché l’avvento di una nuova generazione dovrebbe portare anche allo sviluppo della coscienza di classe, la quale sarebbe invece mancata ai lavoratori di vecchia generazione. Ma se solo i nuovi lavoratori sono portatori di una coscienza di classe, come interpretare gli scioperi e le rivendicazioni di questi lavoratori anziani? Un giovane di vent’anni che viene dalla campagna spesso non sa nulla di previdenza sociale e per questo è disposto ad accettare qualsiasi condizione. Chi ha lavorato in fabbrica per vent’anni sa molto meglio come muoversi. Il discorso sul confronto generazionale è persino controintuitivo da un punto di vista logico.
FP: Inoltre è l’esperienza pratica di lotta e di unità con chi condivide i propri stessi problemi, ben più che internet, a favorire la formazione di una coscienza di classe.
IF: Sì, credo anch’io che gli anni di esperienza siano molto più importanti dell’età o dell’educazione scolastica.
GP: La domanda riguardava anche le nuove potenzialità organizzative e autorganizzative. Picun, per esempio, credo sia un unicum, di cui a me colpiva soprattutto l’idea, sostenuta dai fondatori, di un modello alternativo di vita. Non un semplice supporto a qualcosa, o uno strumento di propaganda politica, ma una nicchia dove cercare di autosostenersi, con biofarm, laboratorio di scrittura, teatro, cinema, scuola per i migranti… È una sorta di villaggio nel villaggio, dove il villaggio più grande è un luogo ordinario abitato da operai migranti che lavorano nei distretti industriali di Pechino, mentre la comunità presenta una serie di attività culturali, ma anche di produzione agricola, aperte a chi vuole parteciparvi. Credo che sia un’esperienza unica in Cina. Anche se naturalmente c’è sempre una spada di Damocle che pende sulla testa di Picun.
IF: Questo è normale, il Partito vede in tutte queste forme di organizzazione che coinvolgono i lavoratori come chissà quali minacce. Fino a poco tempo fa accettava che esistessero situazioni di questo genere, in grado di fungere da valvola di sfogo per le contraddizioni sociali che caratterizzano la società cinese, ma era prima che emergesse la paranoia totale che regna adesso. Ma il Partito stesso è nato come un’organizzazione di quel tipo. Il Partito Comunista Cinese, certo, nasce nel 1921, ma prima c’erano stati i gruppi marxisti di Zhang Guotao e Deng Zhongxia che organizzavano le scuole serali per i ferrovieri. Non so quanta consapevolezza storica vi sia nella classe dirigente cinese in merito a questo, ma ci sono molte somiglianze con quanto avveniva nei primi anni ’20.
GP: Sei ottimista o pessimista?
IF: Gli attivisti che incontro, da sempre ottimisti anche nelle situazioni peggiori, ora sono pessimisti. Quelli che non accettano di incontrarmi, credo parlino da sé. Non c’è motivo per essere ottimisti, in questo momento. Il rallentamento economico e la guerra commerciale metteranno sempre più il Partito in un angolo, portandolo a misure sempre più draconiane per mantenere il controllo sociale, a essere sempre più duro verso queste forme di protesta e attivismo.
Venezia, 13 dicembre 2018
[1] Qui si fa riferimento al tragico incendio avvenuto nella fabbrica di un produttore cinese della Chicco nei pressi di Shenzhen, nel 1993, nel quale rimasero coinvolte più di ottanta operaie, le quali non solo lavoravano lì, ma ci vivevano, secondo il noto modello della fabbrica-dormitorio, ove le condizioni di sicurezza sono carenti, quando non inesistenti. Quando le fiamme divamparono, pare che le operaie tentarono la fuga, ma trovarono finestre e cancelli sbarrati. Il caso destò l’attenzione della comunità internazionale, che iniziò a fare pressioni sulle multinazionali operanti sul territorio cinese.
[2] Per l’intervista di Angela Pascucci a Chang Kai, rimandiamo qui alla versione cartacea, ossia al capitolo del libro Potere e Società in Cina, Roma: Edizioni dell’Asino, 2013, pp. 51-56, ed alla versione elettronica disponibile su www.angelapascucci.eu .
[3] Per “tribù delle formiche”, termine coniato dal sociologo Lian Si, che ha studiato il fenomeno, si intende la massa di giovani laureati che, una volta usciti dall’università, sono alle prese con il precariato lavorativo, ricevendo salari bassi e incerti, costretti perciò a vivere in difficilissime condizioni. In proposito si rimanda al volume: Lian Si, Yizu, Guilin: Guangxi Shifan Daxue Chubanshe, 2009. In inglese vedasi ad es: https://en.wikipedia.org/wiki/Ant_tribe
[4] Rimandiamo all’introduzione della newsletter: “Dietro le quinte di un’inchiesta operaia”.
[5] Il villaggio di Picun, non lontano dall’aeroporto di Pechino, è sede di un esperimento sociale forse unico in Cina, dove un gruppo di lavoratori migranti ha creato e autogestisce due scuole, un mercatino, una fattoria bio, un teatro, un cinema, un centro di scrittura creativa, nonché l’unico museo di storia operaia presente sul Continente.
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