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Il suo lavoro

Riproponiamo attraverso questo sito i testi che Angela Pascucci scriveva per il manifesto, perché riteniamo che abbiano una diversa longevità rispetto ai classici articoli di giornale; tutti i pezzi che selezioneremo hanno un valore storico e documentaristico, e alcuni sono ad oggi perfettamente attuali, nonostante gli anni trascorsi dalla loro stesura.

Come una delle tante megalopoli cinesi, anche questo sito è un cantiere, un work in progress, sempre in fieri. Un piccolo cantiere di storia contemporanea. Vi pubblicheremo a cadenza quindicinale due o tre interventi di Angela, scelti in base al tema o al periodo in cui furono composti.

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Inoltre, tradurremo in inglese i testi che ci paiono più interessanti dal punto di vista storico, giornalistico e sinologico, in modo da renderli accessibili anche ai lettori non italiani.

Negli ultimi anni della sua vita Angela si era attivata per realizzare un blog, o un sito, che archiviasse tutto il suo lavoro, passato e futuro. La malattia non le ha permesso di andare oltre le prime fasi preliminari; ci proviamo noi, ora, convinti dell’assoluto valore della sua visione.

Il team che lavorerà a questo blog è composto da: Gaia Perini (Coordinatore), Federico Picerni (Ricercatore), Vincenzo Naso (Consulente), Giulia Dakli (web manager).

Intervista a Dai Jinhua


[di Angela Pascucci, 2013] Dai Jinhua insegna all’Istituto di Letteratura e Cultura comparata all’Università di Pechino (Beida), dove dirige anche il Center for Film and Cultural Studies. Ma il suo campo di ricerca è ancora più vasto e include cultura popolare, critica cinematografica e studi di genere. Nel panorama complesso del femminismo cinese, Dai, classe 1959, è considerata una delle voci più autorevoli appartenendo alla prima generazione di attivismo e di studi, anche se la sua posizione riguardo alla situazione attuale è una delle più critiche e severe. Riflesso di un rigore intellettuale che viene emanato dalla sua stessa figura, asciutta, sobria, contenuta, accompagnata dalla profondità dello sguardo che trafigge l’interlocutore e dalla voce roca e intensa che spiega, con passione pacata che talvolta si fa sarcasmo, i propri convincimenti e la propria visione del mondo.


Prima di insegnare alla Beida, dove da studentessa si è laureata in Letteratura, ha insegnato alla Beijing Film Academy e i suoi lavori di critica letteraria e cinematografica sono stati tradotti in numerose lingue che l’hanno fatta conoscere in un più vasto ambito internazionale.


In uno dei suoi saggi tradotto anche in inglese, Class and Gender (in China Detected, Arena Press, Hong Kong 2003) Dai Jinhua ha affermato che la differenziazione di classe e la ricostituzione di un ordine di genere sono stati la realtà più importante e crudele degli anni '90. Due aspetti intrecciati in modi così complessi e profondi che, scrive la studiosa, difficilmente possono essere separati l'uno dall'altro. Da questo intreccio inizia la nostra conversazione al tavolino di un bar-ristorante della Beida.


L’impianto teorico del suo ragionamento è di chiara ispirazione marxista e Dai lo porta fino alle estreme conseguenze. Quello che segue è il flusso del suo discorso, riportato in prima persona.


La divisione di classe è il problema principale degli ultimi 20 anni in Cina. I suoi sviluppi più importanti si rintracciano in due date fondamentali. Una è il 2003 e l’altra il 2008. Nel 2003 tre eventi hanno cambiato il corso della storia. Uno è stata le revisione ideologica dei fondamenti del partito (operata sostanzialmente dal segretario del Partito, Jiang Zemin, al termine del suo mandato, quando nel preambolo dello statuto del Pcc è stata iscritta la Teoria delle tre rappresentanze). Una vera ristrutturazione teorica che ha trasformato quello che era ancora un Partito con una base rivoluzionaria in un partito di governo. Poi è venuta la legge sulla proprietà privata e una modifica delle norme sui diritti d’uso della terra che fa perdere ai contadini il diritto di gestire i propri terreni. In quell’anno infatti entra in vigore la legge sui contratti dei terreni agricoli, che se da un lato protegge i contadini dagli espropri, impedendo di cedere la terra a chicchessia, dall’altro limita la loro libertà di disporre dei propri lotti come meglio credono, così che non possono più cederli a terzi né subaffittarli interamente. Con queste misure, coloro che erano i mingong delle città, i contadini migranti diventati operai, acquisiscono uno status di classe da proletariato. Se infatti prima potevano essere considerati dei piccoli proprietari, ora il fatto che la terra non possa essere più scambiata o divisa fa sì che le prossime generazioni non avranno mezzi di produzione propri.

Sommando questi tre eventi, si può dire che nel 2003 si chiude una fase storica aperta nel 1987 e protrattasi per tutti gli anni ’90. In questo periodo storico si colloca a mio avviso Tian’anmen, la cui violenza spiana la strada alla formazione di un nuovo sistema politico che procede alle privatizzazioni e a una nuova forma di impresa. Mutamenti che nel 2003 trovano legittimità e legalità nelle modifiche alla Costituzione. E quando parlo dell’inasprimento, di una restaurazione dell’ordine di genere e di classe, mi riferisco in particolare agli anni ’90 aperti dal 1989.


E’ negli anni ’90, difatti, che si sancisce la fine dello stato pubblico e si procede alle ristrutturazioni delle proprietà statali. Un mega processo di modernizzazione in cui da un lato si lascia che le compagnie del settore pubblico falliscano e diminuiscano di numero, e dall’altra, con la riforma di apertura, si attirano ingenti capitali stranieri che rimodellano l’industria sulle basi di una nuova forma di impresa. E’ a questo punto che si inserisce la mutazione del discorso di genere, che assume le sembianze di un mascheramento dei problemi reali. Gli unici discorsi che da quel momento in poi ottengono piena legittimità sono quelli non degli operai ma delle operaie donne, e non dei mingong come classe ma quello delle donne mingong. La questione femminile si sovrappone a quella di classe e diventa il discorso prevalente. Prendiamo ad esempio i licenziamenti. La perdita del posto di lavoro delle operaie non viene vista come il frutto di una divisione sociale sempre più aspra, ma come un problema femminile legato al genere. Per cui si è detto: beh, queste donne potrebbero tornare alla famiglia, fare le madri e le mogli. In questo modo l’aspetto di genere ha riassorbito un discorso molto più duro, cioè la divisione sociale che in questo periodo si è creata e approfondita.


Sono stati soprattutto i media mainstream a imporre questo ordine del discorso. Ma non sono certo stati i soli. Persino gli intellettuali critici hanno usato il filtro del discorso di genere, della femminilità, per parlare dei licenziamenti a tappeto invece di prendere di petto la questione dell’identità di classe delle lavoratrici.


In questo senso la problematica di genere e quella di classe si sono incrociate e l’una ha coperto la questione posta dall’altra, cioè la terribile e crudele ristrutturazione e divisione della società cinese in classi.


La questione centrale durante tutto questo periodo è che il Partito, pur continuando a definirsi comunista, ha dovuto ristrutturarsi diventando a tutti gli effetti espressione di un sistema capitalista. Quindi il suo problema fondamentale era come mantenere la propria legittimità pur mutando la propria sostanza. E la legittimità è stata ricostituita soltanto nel 2003, quando tutto il processo è stato portato a compimento.


Ma solo nel 2008 la problematica dell’incrocio tra genere e classe si manifesta chiaramente in tutte le sue implicazioni. Il 2008 è l’anno delle Olimpiadi ma gli eventi che lo rendono cruciale precedono le Olimpiadi e sono il terremoto di Wenchuan e la rivolta in Tibet. Da questi due accadimenti emerge la formazione di una nuova borghesia cinese, quella che ha tratto tutti i vantaggi e i privilegi dalla ristrutturazione in senso capitalista del Pcc.


Questa nuova borghesia ha caratteristiche molto peculiari. Una è l’età, l’appartenenza alla generazione di coloro che hanno meno di 40 anni. L’altra è che è geograficamente concentrata sulla fascia costiera e nelle aree metropolitane avanzate: Shanghai, Pechino, Canton. La percentuale sulla popolazione totale è esigua ma la capacità di incidere sul paese ne fa una forza incredibile. Quel che è fondamentale capire rispetto a questa classe è che sono loro ad avere la capacità di consumo, sono loro i veri consumatori, e quindi sono gli unici in grado di trasformare la cultura popolare, la cultura del consumo di questo paese. Quindi anche di pilotarne le esigenze e gli stili di vita. ono anche gli unici ad avere libertà di parola, perché hanno accesso ai nuovi media tramite i microblog, e formano così una nuova opinione pubblica. Naturalmente proprio perché ha capacità di consumo e accesso alle nuove tecnologie, e proprio perché è quella che trae maggiore profitto dalle trasformazioni del paese, questa classe è una forza assolutamente conservatrice.


In questo senso affermo che il terremoto di Wenchuan e il Tibet hanno fatto del 2008 un anno cruciale, quello in cui è emersa una coscienza borghese. Al di là del significato in sé, i due eventi hanno avuto un effetto deflagrante, soprattutto nella Rete, dove si è creata da un giorno all’altro una sorta di identità nazionale. In occasione del terremoto nel Sichuan si è assistito in tutto il paese a uno scatto enorme di solidarietà e di volontarismo. Nel caso del Tibet è esploso un senso di ingiustizia e violenza verso il popolo cinese. (NOTA: Dai Jinhua si riferisce in particolare agli assalti di cui è stata oggetto la torcia olimpica in giro per il mondo, dopo lo scoppio della rivolta tibetana in marzo. Gli attacchi hanno provocato un’ondata di indignazione in Cina ma anche nelle comunità cinesi all’estero, seguita dall’organizzazione di squadre speciali che accompagnavano la torcia e impedivano le aggressioni. Alcuni reportage e foto dei media internazionali non propriamente corretti sull’innesco degli scontri a Lhasa hanno fatto il resto). Possiamo dire che in queste due occasioni abbiamo visto manifestarsi una società cinese che costruisce la sua identità a partire da questi scambi sul web. Società civile? Possiamo anche chiamarla così. Il fatto è che questa società ha riconfermato lo stato nazionale in quanto identità cinese. Lo slogan “forza Wenchuan” è diventato in un attimo “forza Cina”. E’ la borghesia descritta sopra, burocratizzata e compradora, che guarda all’estero, la protagonista di questo fenomeno, perché è lei che tiene in mano Internet, i microblogs. La Rete è il suo medium privilegiato di egemonia culturale dal momento che non può riconoscersi nell’ideologia ufficiale del Pcc, anche se i due insiemi sono perfettamente organici in quanto parte dello stesso processo di trasformazione. D’altra parte il governo ha molto investito per dare connessioni a basso costo. Ci sono punti Internet gratis e gli Internet cafè sono diventati luoghi di aggregazione per moltissimi giovani. Una popolazione enorme (oltre 500 milioni di persone, ndr) naviga. Il problema è che la cultura che passa attraverso i nuovi media è una cultura borghese.


E se l’apparenza è che si critica apertamente il Partito, la realtà è invece che c’è una perfetta fusione, una perfetta interazione tra Pcc e questa forza borghese che tende a privatizzare sempre di più tutti i mezzi di produzione, a capitalizzare tutte le ricchezze del paese. Entrambi agiscono di concerto all’interno del processo di trasformazione capitalista. Il problema è che il Partito continua a chiamarsi comunista, perciò, quali che siano i problemi originati da questo processo, viene accusato il Pcc in quanto comunista, e dunque il socialismo. Ma in realtà il problema è il processo di trasformazione capitalista in atto.


All’interno della nuova borghesia cinese si è formata una grandissima coscienza della femminilità da parte delle donne che appartengono a questa classe assolutamente privilegiata. Si è avuto anche a uno scoppio improvviso della coscienza di genere e del femminismo, anche in chiave internazionale, nella difesa dei diritti delle donne.


La televisione è il veicolo per eccellenza di nuove immagini femminili. Da un programma di scoperta dei talenti è emerso un nuovo modello femminile, molto borghese e sicuro di sé. L’edizione asiatica di Time ha prescelto una delle vincitrici come il personaggio più rappresentativo del momento, con un sondaggio tramite cellulare. La democrazia del pollice. A scegliere simili personaggi è una borghesia femminile cinese costituita da donne tra i 30 e i 40 anni, pienamente inserite e protagoniste nella società capitalista della grande ricchezza. Donne di successo, capitane d’azienda che godono di tutti i privilegi della nuova situazione. Nei maschi appartenenti alla stessa classe si avverte una sorta di disprezzo e di paura verso questi tipi di donne molto forti che costituiscono per le cinesi un modello in cui identificarsi.

Quanto all’intellighenzia di sinistra che ha ceduto al discorso borghese, c’è l’esempio di Ning Ying (NOTA: regista cinematografica e femminista, autrice di For fun, Beijing Taxi, I love Beijing, A train for hope). I suoi primi documentari erano estremamente critici e poi è passata a rappresentare questa nuova femminilità borghese e nell’ultimo film, (“La forza di coloro che non hanno forza”) mette in scena la storia di quattro donne di successo. Alla fine del film una delle donne scompare, ne restano tre che camminano lungo un viale ai margini del quale si vedono mingong che lavorano a rifare la strada, mentre quella che loro percorrono è perfettamente asfaltata. Ho chiesto alla regista se quell’incrocio di genere e di classe fosse voluto, ma lei non se n’era nemmeno accorta.


Nella produzione culturale femminile le eccezioni alla regola esistono ma sono pochissime. Il problema è che anche quando si cerca di esprimere una voce alternativa all’opinione comune non si può non passare attraverso i canali mainstream, egemonizzati dalla borghesia. Come la fiction sulla difficoltà per le giovani generazioni cinesi di avere una casa, “WoJu” basato su un testo della scrittrice Liu Liu. O il caso del regista teatrale d’avanguardia che ha messo in scena “Morte accidentale di un anarchico” e poi ha fatto “Vita di due cani”, metafora delle esperienze di due mingong. Persino in questi casi è sempre il sogno borghese che passa attraverso lo schermo e permea di sé anche l’immaginario alternativo. Un sogno di rivincita che sta andando in frantumi perché ormai è chiaro che non può essere realizzato da chiunque.


Certo il sogno dei contadini migranti diventati operai, i mingong, non è lo stesso di chi appartiene alla nuova classe media ma è comunque creato dall’ideologia della sviluppo e del consumo. Così se il borghese aspira a comprarsi l’auto, la casa, fare figli, avere un’ amante, permettersi dei lussi, il sogno del mingong è di avere un computer per scrivere o navigare in Internet, o poter affittare una casa tutta sua. In realtà i borghesi che possono permettersi di comprare una casa oggi non sono tanti, come del resto sono pochi i mingong che possono permettersi l’affitto di un appartamento.


Il processo di riorganizzazione dell’ordine sociale e di genere dunque è sempre all’opera, con la scomparsa della classe e con essa anche delle donne che appartengono agli strati più subalterni della società, le quali dopo essere passate in secondo piano adesso sono letteralmente sparite dalla scena e dal discorso. E se mai vengono rappresentate lo sono come fenomeni particolari, ad esempio le donne anziane che restano sole in campagna. Situazioni che appaiono legate a una realtà locale, specifica, e mai inquadrate come problema generale della società.


Ma se pure scompaiono dai media queste donne esistono, e hanno bisogno di trovare un proprio contesto sociale, una propria vita. Perciò spesso si aggregano e creano dei circoli molto ristretti, di poche persone, per lo più di amiche, che sono anche molto critici verso la società e il capitalismo. Ma continuano a non avere alcuna voce in capitolo perché tutto questo resta in una dimensione privata, di piccoli gruppi difficili da percepire. E tuttavia esprimono un volontarismo molto forte, un’acuta capacità critica. No ho conosciuti molti nelle campagne, dove collaboro con il professor Wen Tiejun, (NOTA: uno dei massimi esperti agrari cinesi), a un progetto che va avanti da dieci anni e che mira a ricostruire una socialità nuova nelle campagne.


Da intellettuale critica e impegnata mi chiedo come dare voce a queste donne. Da studiosa mi pongo anche un problema teorico di interpretazione e di categorizzazione. Perché “classe” o “genere” sono grandi narrazioni che forse non sono più in grado di descrivere la condizione di queste donne. E neppure la categoria di moltitudine, o i subaltern studies , nuove categorie che dovrebbero soppiantare classe o genere, sono adatte, e lei stessa sta cercando di trovare un nuovo angolo visuale, una nuova lingua per raccontare il vissuto di queste donne. Nonostante il loro potenziale critico sia molto forte non riescono a trovare il modo di manifestarlo all’esterno. C’è dunque un problema di linguaggio, di come rendere visibile questo dissenso, questa contrarietà.


Tuttavia il potenziale critico non si manifesta attraverso la rabbia o il senso di esclusione. In questo senso tutto è ancora allo stato latente, non conscio. Il modo di vivere di queste donne è profondamente diverso. L’aspetto interessante è la materialità dei loro problemi, come riuscire a sopravvivere e portare avanti la propria esistenza in una società che le esclude.


Che cosa accadrà quando ci si renderà conto che il “sogno cinese” si è infranto? Non è assolutamente detto che si crei una forza di opposizione. Non è così automatico. Quelli che contestano le mie teorie critiche verso l’attuale mito dello sviluppo dicono che se si frantuma il sogno della borghesia dei grandi centri urbani, è sempre possibile andare nelle città più piccole, ad esempio nello Shandong, sulla fascia costiera ma non così importanti come Shanghai e Pechino, e lì, dove anche i prezzi sono più bassi, rifarsi una vita. Come a dire che nel momento in cui il paradigma di sviluppo si ferma nei grandi centri urbani può sempre ricominciare se non nelle campagne nelle zone limitrofe. Quindi lo sviluppo può andare avanti ancora per anni senza che si arrivi a un punto di arresto. Mi dispiace ammetterlo, ma sarà così. Del resto, ogni giorno del resto avvengono grosse mobilitazioni e proteste, ma il punto è l’agglutinante, quello che le tiene insieme. Non c’è alcuna possibilità di organizzare e di incamerare questo scontento perché ancora stiamo pensando a quelli che potrebbero essere i percorsi alternativi, ancora stiamo cercando strade diverse. Non sono nemmeno sicura che il socialismo e il comunismo possano essere le risposte. Un altro mondo è possibile, sì, ma quale mondo?


Pechino, 18 ottobre


Tratto da: A. Pascucci, Potere e società in Cina. Storie di resistenza nella grande trasformazione, Edizioni dell'Asino, 2013.


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