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Il suo lavoro

Riproponiamo attraverso questo sito i testi che Angela Pascucci scriveva per il manifesto, perché riteniamo che abbiano una diversa longevità rispetto ai classici articoli di giornale; tutti i pezzi che selezioneremo hanno un valore storico e documentaristico, e alcuni sono ad oggi perfettamente attuali, nonostante gli anni trascorsi dalla loro stesura.

Come una delle tante megalopoli cinesi, anche questo sito è un cantiere, un work in progress, sempre in fieri. Un piccolo cantiere di storia contemporanea. Vi pubblicheremo a cadenza quindicinale due o tre interventi di Angela, scelti in base al tema o al periodo in cui furono composti.

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Inoltre, tradurremo in inglese i testi che ci paiono più interessanti dal punto di vista storico, giornalistico e sinologico, in modo da renderli accessibili anche ai lettori non italiani.

Negli ultimi anni della sua vita Angela si era attivata per realizzare un blog, o un sito, che archiviasse tutto il suo lavoro, passato e futuro. La malattia non le ha permesso di andare oltre le prime fasi preliminari; ci proviamo noi, ora, convinti dell’assoluto valore della sua visione.

Il team che lavorerà a questo blog è composto da: Gaia Perini (Coordinatore), Federico Picerni (Ricercatore), Vincenzo Naso (Consulente), Giulia Dakli (web manager).

Il vento caldo del sapere


[di Angela Pascucci, 2008] “Scelgo per i miei scritti il titolo di Vento Caldo, in contrasto con la gelida aria che mi circonda”. E’ ispirandosi a questa frase di Lu Xun, il grande scrittore cinese del ‘900, che Wang Xiaoming, professore di Cultural studies all’università di Shanghai, ha scelto per la sua nuova rivista il nome "Refeng Xueshu" (Vento caldo dei saperi). Un libretto corposo che per il suo primo numero, uscito nell’ottobre scorso, è stato rivestito da una copertina rosso vermiglio (“un colore che, secondo i miei studenti, lo fa sembrare di sinistra”, dice ridendo). Tutto questo dichiara gli intenti del professore che da tempo usa i “cultural studies” come strumento per analizzare, criticare, dare attenzione alla realtà sociale, culturale e politica in cui vive e nella quale intende svolgere un ruolo da vero zhishi fenzi cinese, un intellettuale impegnato che combina l’interesse alla società, l’indipendenza del pensiero e l’elaborazione teorica per continuare a esercitare un’influenza sul corso della storia. E se la storia è quella della Cina attuale, il compito è immane.


Lo incontriamo a margine di un convegno organizzato a Pechino dalla cattedra di Humanities dell’Università Tsinghua nel quale un gruppo nutrito ma ben selezionato di intellettuali di diverse parti del mondo (Italia, Stati Uniti, Giappone, Corea e naturalmente Cina) è stato chiamato a discutere di “Politica e Cultura nella Cina del XX secolo”, avendo come punto di riferimento il 4 maggio del 1919 e il movimento che da quella data prese il nome. Un movimento politico e culturale che si oppose ai dettami punitivi del Trattato di Versailles imposto alla Cina dalle potenze occidentali ma che innazitutto cercò di elaborare una forma di modernità, un pensiero e una pratica politica nuovi, specificamente cinesi, nel tentativo di far uscire il paese dal grave trauma provocato dal fallimento della neonata Repubblica. Nello stesso momento in cui tutta la Cina celebra i gloriosi 30 anni delle riforme economiche e della politica di apertura di Deng Xiaoping, questo gruppo di intellettuali, sollecitati dal professor Wang Hui , ha ritenuto necessario spostare lo sguardo più oltre, una mossa tanto più utile se il sistema finanziario ed economico globale è squassato dai colpi di una crisi onnipervasiva, e la “nuova” Cina insieme a lui.


Wang Xiaoming è avvezzo da tempo ad allargare il suo sguardo critico anche oltre il proprio paese. La rivista che ha deciso di editare contiene il locale e il globale dissezionati con uno sguardo, ma soprattutto un metodo, molto preciso, che entra nel presente ma restituisce la prospettiva storica del passato. Vi si trovano infatti analisi sociologiche della nuova struttura urbana legata alla formazione della nuova identità cinese, soprattutto quella dei giovani; focus su periodi significativi della storia del paese; riproposizioni di testi importanti della letteratura cinese. In questo numero un romanzo degli anni ’60 e un racconto degli anni ’30, usati per sollevare questioni importanti per la contemporaneità, come il rapporto tra lo sviluppo urbano e l’immaginazione dei cinesi riguardo al futuro. C’è anche una corposa sezione dedicata al pensiero critico coltivato in altri paesi . Francia e Italia dominano il primo numero, dove in un’antologia del pensiero radicale italiano si dà largo conto delle teorizzazioni sul lavoro immateriale e la “moltitudine” di Toni Negri, con testi dello stesso Negri, di Michael Hardt, di Paolo Virno. Non manca Giorgio Agamben, ed è presente anche Massimo Cacciari, via Foucault.


“Usiamo la cultura come un finestra” spiega, “una finestra da aprire per analizzare tutto: politica, economia, società”. In senso più ampio, ma anche più profondo, lo strumento imbracciato dal professore è la categoria della cultura politica usata in senso critico che, afferma, ha una forte tradizione nella storia cinese ed è la più consona ad analizzare il presente, e soprattutto a cambiarlo. I cultural studies di stampo americano che si riducono ad attività accademiche iper specializzate, chiuse nei campus universitari, senza influenza sulla vita sociale, per lui non hanno alcun interesse, in quanto del tutto inutili agli scopi che si prefigge. Quali questi siano lo ha enunciato con chiarezza in una suo “Manifesto for Cultural Studies” (tradotto in inglese e pubblicato in “One China, Many Paths, antologia che propone scritti di intellettuali cinesi di tendenze diverse pubblicata da Verso nel 2003). In quello scritto Wang Xiaoming descrive una Cina dove è in corso “il più difficile e inedito caso di cambiamento sociale del XX secolo”, impossibile da definire perché, “sotto ogni aspetto, non si adatta a nessuno dei modelli teorici esistenti”. Il paese subisce “una molteplicità di cambiamenti, interrelati ma che non si muovono verso un’unica direzione e il più delle volte sono in conflitto fra loro”. Spinte violente e contrastanti che, scrive Wang “conducono la società allo scontro con se stessa e la fanno a pezzi”. Impossibile capire quale spinta prevarrà, e il futuro appare indeterminato. “La confusione che pervade la società oggi è la reazione naturale a questa mancanza di certezze”. Nondimeno forze politiche e culturali molto forti sono all’opera, rafforzate negli anni ’90, che hanno generato una nuova ideologia: quella dell’arricchimento individuale, del breve termine, della modernizzazione purchessia, del disprezzo per ogni cultura critica dell’esistente. Un’ideologia che nega e cancella le differenze e gli squilibri crescenti, o li annulla nel mito della transizione. Secondo Wang Xiaoming è il disvelamento di questo “nuovo pensiero” il compito precipuo dei “cultural studies” come lui li concepisce.


A distanza di qualche anno dall’elaborazione di questo Manifesto, l’intento teorico del disvelamento si è rafforzato combinandosi con un’urgenza nuova a elaborare alternative. Ma in Cina questo passo ulteriore deve passare attraverso le strettoie della tormentata storia del ‘900. Al Convegno di Pechino, Wang Xiaoming ha presentato una relazione sulla cultura politica radicale socialista degli anni ’50 e ’60. E’ lì, dice, che va rintracciata l’origine dei fallimenti successivi. E’ già in quegli anni, afferma, che la rivoluzione socialista, svuotata dall’ingresso nelle istituzioni, si trasformò nel suo opposto, e che uno stato nominalmente di sinistra di fatto attuò politiche di destra. La reazione a questo fu innanzitutto culturale, diventando elemento integrante della Rivoluzione Culturale. Ma ne costituì solo una delle molte parti. Perché, secondo Wang, le Rivoluzioni Culturali furono più d’una, avvennero in tempi differenti e furono originate da culture politiche diverse. E’ vero che una parte dello stato, incarnata da Mao Zedong, la usò a propri scopi per combattere contro una parte del Partito. Ma “quando Mao si appellò al popolo perché facesse fuoco sul quartier generale, io penso che abbia aperto una scatola dalla quale è uscito fuori di tutto. Quando ha cercato di richiuderla, era troppo tardi”.


Ma cosa pensa lui della grande violenza, fisica e psicologica, di quell’evento, il solo aspetto che oggi tutti sembrano ricordare e che costituisce la censura contro ogni pensiero radicale che voglia opporsi all’esistente? E’ parte integrante di quel fallimento, risponde il professore. “Alla fine degli anni ’70 molti cinesi volevano dire addio alla Rivoluzione culturale, volevano un paese nuovo, una nuova vita. Per questo le riforme si sono sviluppate tanto rapidamente. Ma dopo 20 anni la gente comune si rende conto che la situazione non è affatto buona. Troppo capitalista, troppo ineguale, troppo dura.” Così c’è chi si volge al passato e guarda alla storia socialista per trovare una via d’uscita. Vi sono persino nostalgici che vorrebbero tornare indietro. Non è il suo caso, chiarisce. Per quel che lo riguarda, la Cina deve imboccare una strada totalmente nuova perché il Partito la sta guidando verso una direzione sbagliata, quella che anche i governanti dei paesi occidentali stanno facendo percorrere ai loro governati.


Perciò, asserisce, l’elaborazione deve essere globale. “Molti intellettuali di altri paesi, Europa, India, Stati uniti, America Latina, Asia” spiega “pensano che la storia socialista della Cina offra notevoli spunti e risorse al pensiero critico. E’ per questo che noi intellettuali cinesi abbiamo un dovere speciale nel capire cosa accadde alla nostra storia. Sono ricerche complesse, difficili, per diverse ragioni, ma dobbiamo farle. Dobbiamo comprendere gli errori e capire quello che invece era valido, per recuperarlo. Se non chiariamo questo, la prossima volta si commetteranno gli stessi sbagli”.


Ma quanto è libero, un accademico come lui, di condurre le proprie ricerche sul ‘900 cinese? L’uso in senso revisionista della storia non è fenomeno solo occidentale, spiega. In Cina negli anni ’80, all’inizio delle riforme, c’era una grande attività di ricerca, e tutti, in particolare gli studenti, erano interessati a capire. Il passato era considerato importante. Nel 1989 ci fu il punto di svolta. Dai primi anni ’90 il governo ha imposto limitazioni strette alla pubblicazione di libri sulla Rivoluzione Culturale e su Mao. Al liceo gli insegnanti hanno 45 minuti in tutto per parlare della Rivoluzione Culturale. Così i giovani non sanno nulla di quel tempo e la nuova situazione, culturale, politica ed economica consiglia loro di guardare solo al presente: cercare un lavoro, fare soldi. Questo è il grande problema, dice. E il suo lavoro? “Nella mia aula universitaria, negli incontri accademici, nei convegni posso dire tutto. Ma non posso pubblicare quel che voglio, su tutta la storia. Solo sul 70%. Così dobbiamo trovare il modo di raccontare anche il restante 30%.


Il rapporto tra i cittadini e la politica è cruciale, in un’impostazione teorica come la sua. Come si può descrivere oggi questo rapporto in Cina? «Se per politica intendiamo gli affari statali, il rapporto è inesistente. Per la gente comune gli affari pubblici sono semplicemente qualcosa di molto pericoloso da toccare. Ma se guardiamo alla politica in senso più ampio, la situazione sta cambiando, la gente comune sta costruendo nuovi spazi politici». Fa un esempio per tutti: il terremoto nel Sichuan. Una tragedia trasformatasi in evento straordinario quando decine di migliaia di volontari sono accorsi da tutto il paese nell’area. Nei primi tempi, con i governi locali sotto shock, indeboliti e messi a tacere, nell’area del sisma si è creato un nuovo ordine politico costituito dai volontari, le ong, le popolazioni locali e persino l’esercito. Quando la situazione si è normalizzata, i governi locali hanno cominciato a guardare con fastidio e insofferenza ai volontari, che sono stati costretti ad andarsene quando anche i militari hanno dovuto lasciare l’area. Ma, afferma Wang «io penso che per la capacità di partecipare attivamente al governo da parte delle popolazioni locali una porta si è aperta e sarà difficile richiuderla completamente».


Forse la grave crisi in corso potrebbe essere un’occasione per allargare quello spiraglio, imporre nuove regole, differenti modalità di governo, altre scelte, anche in campo economico? “Questa crisi costituisce la prova che ormai la Cina è profondamente coinvolta nelle vicende globali. Anche se la crisi finanziaria non sarà devastante come negli Stati uniti, gli effetti sull’economia reale stanno facendo esplodere le molte crisi interne. Per uscirne, bisognerà trovare una strada nuova. E dovremo farlo noi e voi, insieme”.


Giugno 2008

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