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Il suo lavoro

Riproponiamo attraverso questo sito i testi che Angela Pascucci scriveva per il manifesto, perché riteniamo che abbiano una diversa longevità rispetto ai classici articoli di giornale; tutti i pezzi che selezioneremo hanno un valore storico e documentaristico, e alcuni sono ad oggi perfettamente attuali, nonostante gli anni trascorsi dalla loro stesura.

Come una delle tante megalopoli cinesi, anche questo sito è un cantiere, un work in progress, sempre in fieri. Un piccolo cantiere di storia contemporanea. Vi pubblicheremo a cadenza quindicinale due o tre interventi di Angela, scelti in base al tema o al periodo in cui furono composti.

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Inoltre, tradurremo in inglese i testi che ci paiono più interessanti dal punto di vista storico, giornalistico e sinologico, in modo da renderli accessibili anche ai lettori non italiani.

Negli ultimi anni della sua vita Angela si era attivata per realizzare un blog, o un sito, che archiviasse tutto il suo lavoro, passato e futuro. La malattia non le ha permesso di andare oltre le prime fasi preliminari; ci proviamo noi, ora, convinti dell’assoluto valore della sua visione.

Il team che lavorerà a questo blog è composto da: Gaia Perini (Coordinatore), Federico Picerni (Ricercatore), Vincenzo Naso (Consulente), Giulia Dakli (web manager).

I fuorilegge del Guangdong

Aggiornamento: 11 gen 2019


I fuorilegge del Guangdong

[di Angela Pascucci, 2008] SHENZHEN - Altro che Olimpiadi. In Guangdong è già Natale. Ma il brivido che percorre la provincia meridionale cinese, sommersa da piogge torrenziali come non si vedevano da un secolo, non è da maltempo. Gli ordinativi dagli Stati uniti, che sempre arrivano a luglio per poter rispettare le scadenze natalizie, tardano ad arrivare. I migranti, andati a casa per i raccolti estivi, stanno tornando. Centinaia di migliaia di braccia aggiuntive pronte a turni di lavoro di 12/14 ore e oltre. Segno dell’incertezza globale e della crisi che morde, il ritardo si aggiunge alle ansie che da qualche tempo angosciano la «fabbrica del mondo» emette a rischio il progetto di ripulire questo ventre oscuro che da quasi tre decenni ingurgita forza umana, materie prime, energia restituendo veleni, corpi e anime sfiniti, e merci il cui prezzo mai rispecchia il valore di quel che è stato necessario distruggere per produrle.


La recessione Usa arriva buona ultima, dopo una raffica di contrattempi » che hanno trasformato la corsa in discesa in una competizione ad ostacoli: l’aumento dei costi delle materie prime e dell’energia, la rivalutazione dello yuan, gli argini posti all’inquinamento più devastante, la fine delle esenzioni fiscali che avevano reso tanto «speciale » la regione e, ultimo ma non certo meno importante, l’aumento dei salari minimi accompagnato da una nuova legge sui contratti di lavoro, entrata in vigore dal primo gennaio, che doveva mettere fine allo sfruttamento più brutale. Doveva.


Perché intanto 200 aziende di Taiwan hanno lasciato Dongguan, contea sweatshop al confine con Shenzhen, il 5%delle imprese coreane in Cina ha traslocato e il 25% ci sta pensando su, la Federazione delle industrie di Hong Kong ha previsto che 10mila compagnie del Territorio chiuderanno presto se il «clima imprenditoriale» del Guangdong non cambierà. I governanti della provincia fino a qualche mese fa inneggiavano a un modello di produzione più avanzato (meno inquinante e predatorio, meno giocattoli e più hi tech) e invitavano alla porta chi non ci stava. Oggi, con la crisi sul collo, ci stanno ripensando e davanti alle minacce di trasferimento nei più promettenti Vietnam, Cambogia o India, o nelle province cinesi ancora così arretrate da vendersi a prezzi stracciati, promettono «nuova collaborazione».


I padroni e padroncini del Guangdong piangono miseria e, pur consapevoli che le cause della moria delle vacche grasse sono altre, e strutturali, se la prendono soprattutto col costo del lavoro e le nuove rivendicazioni degli operai che hanno finalmente avuto, per grazia governativa, una legge con cui difendere i propri diritti. Pensano, forse non a torto, che questo sia l’unico fronte che è possibile travolgere. E l’attacco è già in corso.


Come, ce lo racconta Pun Ngai, vicedirettrice del Centro di ricerca China Social Work di Hong Kong, che fa capo all’Università di Pechino e al Politecnico di Hong Kong. Lo scontro, spiega, si è oggi concentrato nella discussione non ancora conclusa sulle linee guida dell’applicazione (parte integrante della legge) e si dà ormai per scontato lo stravolgimento dei punti più forti, come l’assunzione a tempo indeterminato dopo 10 anni di attività nella stessa impresa, le maggiori difficoltà a licenziare, i limiti imposti agli straordinari.


La donna più ricca della Cina


In prima fila, racconta Pun, la regina del cartone riciclato, Zhang Yin, salita agli onori delle cronache occidentali come la donna più ricca di Cina, che ha avuto una reprimenda persino dai sindacati ufficiali per il modo vergognoso con cui tratta i propri dipendenti nella sua Nine Dragons Paper. Anche se la Confederazione sindacale (Acftu, All China Federation of Trade Unions, 150 milioni di iscritti dichiarati) è dovuta intervenire sotto la pressione di una dura campagna di denuncia della Sacom, (Students and Scholars against Corporate Misbehavior) organizzazione di studenti e professori fondata nel 2005 con base a Hong Kong che, come dice il suo acronimo, è impegnata attivamente a denunciare le violazioni delle multinazionali. Pun Ngai è tra i professori che animano il gruppo e che sollecitano i propri studenti a mettersi al fianco degli operai. Chi lo fa, non torna mai indietro.


Il punto è proprio questo. Lo dicono gli stessi operai e gli attivisti delle organizzazioni: lo scontro non è iniziato il primo gennaio e questa legge, pure buona, è una carta che vola col vento che tira. Se non si combatte per trasformarla in diritti reali, resta carta straccia, sotto gli occhi impassibili del governo e del sindacato. Gli stessi che avrebbero dovuto imporre anche l’osservanza della legge sul lavoro del 1994, rimasta in gran parte lettera morta, anche perché le aziende non erano punite quando la infrangevano. Ma, come spiega Pun Ngai, le organizzazioni di difesa dei diritti operai sono ancora poche e deboli. Anche se tutto indica che un movimento di base per la difesa dei lavoratori e la giustizia sociale, inedito per la sua ampiezza, sta nascendo in Cina. Ancora agli albori ma in rapida crescita.


Lo strumento più vasto e capillare, il sindacato ufficiale, unico ammesso, è controllato dai governi locali che, tra corruzione e ossessione della crescita economica diventata ormai problematica, vedono i lavoratori come dei nemici. E quando, appellandosi alla legge, gli operai si fanno avanti da soli, rischiano licenziamenti e pestaggi. È un quadro oscuro ma qualcosa si sta muovendo e la sociologa prevede che in cinque/dieci anni i lavoratori saranno in grado di far valere i propri diritti in modo più organizzato e forte. I tempi dipenderanno dalla dinamica dello scontro, che oggi si sta accelerando.


D’altra parte, se il governo centrale ha varato questa legge è perché non poteva più ignorare le proteste e gli scioperi in costante aumento. Così argomenta Robin Munro, direttore della ricerca e della comunicazione del China Labour Bulletin (Clb), storico organismo del sindacalismo alternativo, che ha sede nel quartiere di Central, sull’isola di Hong Kong.


Secondo Munro oggi la situazione è così esplosiva che il governo ha persino rinunciato alla repressione più dura e tenta di mediare, forse consapevole che bisogna affrontare i problemi creati dalle riforme, altrimenti la società diventa sempre più instabile. E allora addio «armonia» ... Gli stessi sindacati ufficiali, che un tempo filmavano i rivoltosi e consegnavano le cassette alla polizia, sembrano aver capito che è un sistema controproducente (anche se in galera ancora oggi qualcuno ci finisce). Da qui a dire che la legge è risolutiva ce ne corre, però. In ogni paese, ricorda Munro, le leggi impongono obblighi ma per essere applicate vogliono controllo e soprattutto coercizione, che in Cina non ci sono. I lavoratori sono deboli, spiega, perché non possono organizzarsi in modo autonomo al di fuori del sindacato unico. Lui definisce il problema «l’elefante nel salotto», e tuttavia il China Labour, che in passato propugnava la formazione di sindacati alternativi, ha deciso di passare al pragmatismo e al grido: «E’ il nostro sindacato, riprendiamocelo» oggi consiglia ai lavoratori di fondare cellule sindacali ufficiali all’interno delle compagnie e controllarle. È una logica di razionalizzazione capitalistica, quella che ispira il Clb. Il governo ha sempre temuto fenomeni di sindacalismo politico tipo Solidarnosc che mettevano in discussione la sua esistenza, argomenta Munro. Non capisce che ormai, con il prevalere delle imprese private, può evitare di farsi coinvolgere e assumere al più il ruolo del mediatore.


L’indipendenza del migrante

Gli elementi per una simile svolta ci sono tutti, spiega. C’è una buona legislazione e una classe operaia meno ideologica. Nel senso che i mingong, i 200 milioni di migranti arrivati dalle campagne che oggi costituiscono il nerbo della forza lavoro attiva, non sono gli operai delle danwei, le unità di lavoro di una volta, che si identificavano con la fabbrica, il partito e lo stato. Il migrante, argomenta il dirigente di Clb, è più indipendente, più «laico» abituato com’è a contare solo sulle proprie forze. E non ce la fa più. Oltre ai soprusi, ora è anche l’inflazione che morde la sua paga. Anche se nel Guangdong il salario minimo è stato portato a 1000 yuan (100 euro) dal primo luglio, il più alto del paese, la grande ricchezza prodotta viene ridistribuita in un modo che ormai è tra i più ineguali, e sprezzanti, del mondo.


Il vero punto di forza della nuova legge, per Munro, riguarda però il futuro. Il dispositivo introduce per la prima volta nel settore privato il contratto collettivo, che domina nell’industria pubblica dove ne sono in vigore circa 190mila. Una pletora senza senso che impone la ricontrattazione. Chi la farà? E come? È il grande orizzonte che si dischiude nei prossimi due-tre anni davanti ai lavoratori cinesi e a organizzazioni come il China Labour.


Se il futuro è tutto da costruire, la battaglia infuria nelle trincee quotidiane. Come sa l’avvocato che vuole restare anonimo e che chiede di incontrarci al Dafen Oil Painting Village di Longgang, uno dei distretti di Shenzhen. Lavora per un grande studio civilista che cura anche cause di lavoro. Non ha storie clamorose da riferire ma racconta la dura materialità dello scontro che un lavoratore deve ingaggiare prima col datore di lavoro e poi con il sistema legale quando decide di intraprendere questa via crucis. Il primo effetto della nuova legge è stato proprio l’aumento esponenziale delle cause ma il legale ricorda che le linee guida dell’applicazione ancora non ci sono, il che rende incerto l’esito dei procedimenti in corso e dà adito a nuovi fenomeni di corruzione all’interno delle agenzie pubbliche che dovrebbero invece vigilare sull’applicazione della legge. Gli organismi governativi che dovrebbero far rispettare le nuove regole abbondano, spiega l’avvocato. C’è quello che deve controllare se la compagnia è in regola col rispetto dei regolamenti (da quelli del lavoro a quelli ambientali), c’è poi il dipartimento che deve fornire assistenza legale gratis ai lavoratori infine i sindacati che oltre a rappresentare i lavoratori e informarli delle normative dovrebbero anche ispezionare le aziende.


La paura di sbagliare


Eppure il caso che lui tratta più spesso è quello del lavoratore che, da solo, decide di denunciare l’azienda. E per giungere fino al suo studio, ha dovuto scalare montagne. La prima è stata la propria paura di sbagliare, di mettersi in una situazione di scontro con qualcuno molto più forte e dal quale comunque dipende. I migranti sono i più indifesi. Quando vengono calpestati e si ribellano, i padroni li dissuadono dall’andare dalle autorità: stanno dalla nostra parte, gli dicono, e tu ti metti nei guai. Oppure ci sono le minacce e le botte. Le aziende individuano gli operai più consapevoli e istruiti e li colpiscono duramente. Quanto al nostro avvocato, racconta come ogni giorno sperimenti la sproporzione di forze tra il padrone di un’azienda e gli operai. Che si traduce spesso nell’impossibilità di ottenere i documenti necessari come prove. Problema che gli richiede non la conoscenza della legge, dice, ma una grande capacità di relazioni a tutti i livelli. L’aspetto più grave è però la durata delle cause, a volte così lunghe che quando si arriva all’ultimo appello le prove sono state tutte distrutte. Da qualche tempo però le sentenze sembrano più favorevoli ai lavoratori: più del 50% la spunta, rispetto al 30% di qualche anno fa. E poiché le corti non sono indipendenti, sembra evidente che l’ordine è venuto dall’alto. Un altro modo di allentare le tensioni, anche se poi il giudice decide spesso il risarcimento minimo e non è detto che l’azienda pagherà. È anche per l’impervietà della via legale che gli operai scelgono più spesso come arma di difesa le proteste e gli scioperi (non consentiti) oppure semplicemente di andarsene. Ci sono fabbriche in cui il turn over raggiunge ogni anno il 90%. La classe operaia cinese, il 30% della forza lavoro mondiale, è però cambiata, dopo quasi trent’anni di riforme che ne hanno degradato il ruolo sociale e politico proprio quando ponevano sulle sue spalle il peso più gravoso dello sviluppo del paese. Una contraddizione su cui non pochi da tempo hanno cominciato a riflettere. Così la consapevolezza cresce e lentamente una nuova coscienza si sta formando.


Articolo pubblicato su il manifesto del 16 luglio 2008

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